Slitta il processo di annessione di una porzione della Cisgiordania da parte di Israele, annunciato per il 1° luglio. Ma cosa prevede il piano voluto da Netanyahu e che conseguenze avrebbe sulla soluzione dei due stati?
Il processo per l’annessione allo stato di Israele degli insediamenti in Cisgiordania, proposta dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, non comincerà oggi. Il progetto – nato all’indomani della presentazione del ‘Piano di pace’ di Donald Trump per risolvere il conflitto arabo-israeliano – potrebbe dunque slittare ai prossimi giorni o addirittura essere congelato. Il ‘D-day’ dell’annessione, fissato per il 1° luglio, era contenuto nell’accordo di governo tra Netanyahu e il suo ex rivale Benny Gantz, che ha messo fine a un anno e mezzo di stallo politico.
Il fattore tempo non è secondario: Netanyahu sa che se vuole far passare i piani di annessione i tempi stringono. A novembre l’inquilino della Casa Bianca potrebbe cambiare e lo sfidante Joe Biden ha già fatto capire chiaramente che non approverebbe una simile mossa unilaterale. Per ‘Re Bibi’ l’unica è giocare d’anticipo, mettendo la nuova amministrazione davanti al fatto compiuto.
Tuttavia, nei giorni scorsi, era stato proprio il premier a frenare, avvisando che il processo potrebbe essere ritardato "ai prossimi giorni" e che ci sono “problemi complessi, anche a livello diplomatico” che vanno risolti. Ieri il ministro della Difesa (e premier alternato) Benny Gantz ha detto all'inviato del presidente Trump Avi Berkovitz che quella dell'1° luglio “non è una data sacra” e che prima Israele deve affrontare e risolvere l’emergenza Coronavirus. Un cambio di rotta inatteso e che solleva diversi interrogativi. Troppe critiche hanno convinto Tel Aviv a ripensarci? L’amministrazione Usa, alle prese con altri problemi interni, non dà pieno sostegno all’alleato mediorientale? L’unica cosa certa, al momento, è che oggi contrariamente alle attese, non accadrà nulla di concreto. A chi gli chiedeva cosa succederà oggi, Benny Gantz ha risposto con una battuta: “E cosa volete che succeda? Il sole sorgerà a est e tramonterà a ovest”.
Cosa prevede ‘l’Accordo del secolo’?
Presentato a gennaio, il piano dell'amministrazione Trump per ‘l’Accordo del secolo’ tra israeliani e palestinesi accoglie in buona parte le rivendicazioni territoriali israeliane, prevedendo l'eventuale creazione di uno stato palestinese smilitarizzato e su un territorio molto frammentato, contenente alcune enclave israeliane e collegato da ponti e tunnel e con la capitale nei quartieri periferici di Gerusalemme Est. In cambio, il documento promette ai palestinesi ingenti finanziamenti, mantenendosi ambiguo su chi dovrebbe stanziarli, per le loro attività economiche. Estremamente vantaggioso per gli israeliani, che arriverebbero ad estendere la loro sovranità su circa il 30% della Cisgiordania, il piano Trump è stato giudicato “la truffa del secolo” dalla leadership palestinese e ha scontentato nel contempo molti coloni, per cui l’idea di uno stato palestinese è inaccettabile e che ritengono che il loro governo dovrebbe controllare l'intera Cisgiordania.
Israele tra critiche e contromisure?
Finora la proposta statunitense non ha ricevuto molto sostegno. Giudicata illegittima dall’Onu, è stata accolta con freddezza dalle monarchie e dagli emirati del Golfo. La Giordania, unico paese arabo con l’Egitto ad aver firmato un accordo pace con Israele, ha minacciato di annullarlo mentre l’Unione Europea ha parlato di “ripercussioni” per una mossa “che non si concilia con il diritto internazionale”. Il premier britannico Boris Johnson ha invitato Israele a non "fare un regalo ai critici" portando avanti i piani di annessione e ha avvisato che in caso di annessione, “il Regno Unito non riconoscerà nessuna modifica alle linee del 1967, con l'eccezione di quelle concordate da entrambe le parti”.
A poche ore dal ‘D-day’ anche l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) ha giocato la sua mossa: il premier Mohammad Shtayyeh, ha annunciato che una controproposta al piano di Washington è stata presentata al Quartetto (Stati Uniti, Onu, Russia e Unione Europea). Nel tentativo di sottrarre agli Usa il ruolo di mediatori e richiamare la comunità internazionale a fare la propria parte, l’Anp si è anche detta pronta a riprendere i negoziati con la controparte israeliana.
Annessione light?
Potenzialmente, il piano di annessione riguarda tutte le città e i villaggi che Israele ha costruito sulla riva occidentale del Giordano, West Bank appunto o Cisgiordania, dopo la guerra del 1967 e che oggi ospitano circa 500.000 coloni. Questi territori non sono mai stati formalmente rivendicati come territorio israeliano a causa della ferma opposizione internazionale. Ma se si escludono i villaggi più isolati, nell’area orientale della Valle del Giordano, e alcuni grandi insediamenti, la maggior parte dei coloni vive in aree abbastanza circoscritte, denominate “blocchi”: si tratta di fatto di zone residenziali intorno all’area metropolitana di Gerusalemme, collegati da superstrade in cui possono circolare solo auto con targhe israeliane. L’ipotesi a cui starebbe lavorando Netanyahu è quella di un passo simbolico, con l’appoggio di Gantz e dell’amministrazione Usa: un’annessione limitata a Ma’ale Adumim e qualcun altro dei blocchi, per un’estensione pari al 5% del territorio della Cisgiordania. Un’annessione light, concordano gli osservatori, ma che Netanyahu potrebbe ‘vendere’ all’elettorato come un grande successo ottenuto dalla sua maggioranza.
Fine di Oslo o di un’illusione?
E mentre il mondo si interroga sulle sorti delle colonie in Cisgiordania, al di là dei recinti e muri di separazione, i diretti interessati – i palestinesi della West Bank – sembrano quasi disinteressati a ciò che accade intorno a loro. “Sia che la chiamiamo occupazione, sia che la chiamiamo annessione, le cose qui non cambieranno” spiegano al quotidiano Haaretz. La loro autonomia è già limitata e per andare a coltivare la terra dalla quale possono essere facilmente espropriati, devono chiedere il permesso israeliano. Il fallimento del negoziato di Oslo che, dopo gli accordi iniziali del 1993 non ha portato alla soluzione dei due stati, ha di fatto lasciato ampie porzioni della Cisgiordania (circa il 60%) sotto il controllo militare e civile israeliano. “Per vivere i palestinesi consumano prodotti israeliani; le loro strade, quando a un posto di blocco non li rimandano indietro, sono peggiori di quelle degli occupanti – spiega all’ISPI Ugo Tramballi – e i coloni israeliani sono da sempre liberi di comportarsi come se fossero già dentro i confini dello Stato ebraico internazionalmente riconosciuto”. È per questo che chi vive in Cisgiordania, spiega Saleh Barameh, direttore del Palestine Institute for Public Diplomacy, a Ramallah “non può che guardare con sarcasmo alle dichiarazioni di protesta e agli allarmi ‘esistenziali’ lanciati mentre nei giorni precedenti al 1° luglio”. Per i palestinesi l’annessione è già in corso da 60 anni.
Il commento
Di Ugo Tramballi, ISPI Senior Advisor
“Dopo le critiche suscitate a livello internazionale – perfino l’Unione Europea si è spesa in tal senso – e un probabile freno imposto dalla Casa Bianca, Benjamin Netanyahu ha capito che non era il momento per uno strappo, unilaterale, sull’annessione della Cisgiordania.
Alla fine è probabile che l’annessione, almeno in questa fase, riguardi solo i famosi blocchi intorno a Gerusalemme che, peraltro, erano previsti anche dagli accordi di Oslo. Ma ciò non significa che Netanyahu accantoni per sempre il progetto. La partita potrebbe essere solo rinviata”.
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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications)