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Commentary

Israele-Arabia Saudita: insolito asse anti-iraniano

20 novembre 2013

La ripresa del round negoziale ginevrino sul dossier nucleare iraniano, il 20 novembre, ha vissuto la tragica vigilia di un duplice attentato contro l’ambasciata della Repubblica Islamica a Beirut, in Libano, costato la vita a 23 persone oltre al ferimento di altre 146. La pronta rivendicazione delle Brigate “Abdullah Azzam”, gruppo jihadista libanese collegato ad al-Qaeda, lascia supporre che l’accaduto non sia altro che l’ennesimo episodio collaterale di quanto sviluppato nello scontro a tutto campo in Siria, una sorta di risposta al coinvolgimento iraniano e di Hezbollah nel conflitto a fianco delle forze governative di Assad. Il Libano e il fronte di Damasco sono solo due dei piani sui quali si sviluppa la faida tra l’asse “Iran-Assad-Hezbollah” da un lato e il raggrup-pamento “Arabia Saudita-monarchie del Golfo Persico-milizie wahabite-salafite” dall’altro. Preoccupano le possibili ripercussioni in seguito a un ipotetico accordo raggiunto dal Gruppo 5+1 (Francia permettendo) con l’Iran, verosimilmente una riduzione delle sanzioni in cambio di uno stop momentaneo all’arricchimento in vista di negoziati più consistenti, sia per il mutamento sempre più evidente nei rapporti a tre tra Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita, sia per gli equilibri d’area dell’intero Medio Oriente, che subirebbero svolte non totalmente prevedibili.

A testimoniare quanto sia vasto lo scenario toccato dagli affari ginevrini sul nucleare iraniano contribuisce la visita del Premier israeliano Netanyahu a Mosca, lo stesso giorno della ripresa dei negoziati, per discutere le istanze di Tel Aviv sul dossier del caso e cercare in Putin un plausibile partner: sia Israele sia l’Arabia Saudita, altro grande scontento delle mosse diplomatiche dell’amministrazione Obama, sono consapevoli infatti che le reticenze francesi in merito a un epilogo dei negoziati percepito come troppo positivo per l’Iran  non potrebbero durare a lungo se queste significassero una rottura decisa nei rapporti tra Parigi e Washington; una collaborazione con i russi, sempre più disposti ad agire di rimessa e riempire i vacuum d’influenza lasciati aperti dagli USA nella regione, come nel caso dei finanziamenti all’Egitto, potrebbe a lungo andare sovvertire l’impegno americano e iraniano sullo sviluppo di un accordo. Un accordo la cui opposizione sembra aver unito Riyadh e Tel Aviv in un asse improbabile di comunione d’intenti, legati alla percezione di un reale potenziamento di un nemico comune, l’Iran appunto, che i sauditi cercano di ostacolare con ogni mezzo, diplomatico, finanziario e logistico nella grande “proxy war” apertasi con il conflitto a Damasco e che gli israeliani sembrano considerare come la minaccia più autentica verso la propria sicurezza nazionale.

L’Arabia Saudita, da sempre legata agli Stati Uniti, ha finito per sostituire l’Iran post 1979 nel ruolo di uno dei due pilastri (l’altro è Israele) della strategica contenitiva americana nei confronti dell’Unione Sovietica e dei Paesi ad essa politicamente più prossimi, l’Iraq e soprattutto la Siria. Questo riferimento alla postura americana in Medio Oriente durante la Guerra Fredda è rilevante perché oggi l’elemento più rilevante che si può notare, una sorta di causa profonda dell’alienazione israeliana e saudita da Washington, è proprio lo scollamento e la divaricazione delle priorità nazionali: potenze eminentemente regionali, Israele e Arabia Saudita percepiscono nel tentativo di “appeasement” tra Usa e Iran qualcosa di più di un mero accordo di lungo periodo sul nucleare di Teheran; è la ridefinizione degli attori di riferimento e dei punti di equilibrio del Medio Oriente a preoccupare maggiormente, in sintesi il tentativo percepito da parte americana di partire dal duplice dossier della Siria e del nucleare per addivenire a un sovvertimento dei rapporti di forza, permettendo all’Iran di esercitare il ruolo di potenza regionale di riferimento in cambio della fine della minaccia nucleare, da molti vissuta esclusivamente come una pedina di scambio in tal senso.

Israele-Arabia Saudita, un ensemble di certo non scevro da contraddizioni e pericoli che, per la verità sembrano pendere più dalla parte di Riyadh: se è vero che il regno saudita ha sempre visto come un’intollerabile ingerenza negli affari palestinesi il rapporto tra Teheran e Hamas, affari che la famiglia regnante saudita ha cercato di sanare prima con il Principe della Corona Abdullah bin Abd al Aziz e poi con il ministro degli esteri Principe Saud al Faisal, collegando normalizzazione delle relazioni tra arabi e israeliani ad un accordo sulla Palestina, mai raggiunto, la politica saudita verso i Palestinesi è ricchissima di molte parole e poche azioni concrete, pur permanendo la considerazione del ruolo centrale della Palestina come motore dei disequilibri regionali. Un legame troppo forte con Israele, nel timore comune di una supremazia totale dell’Iran sull’area del Golfo, potrebbe però alienare i sauditi da quella componente salafita che sembrano sostenere attivamente al di fuori dei confini dello stato di Riyadh, come in Siria, Libano e Iraq, ma che al contempo temono in maniera rilevante in caso di un ritorno dal fronte in territorio saudita. Israele e Regno saudita si considerano reciprocamente come gli ultimi guardiani della stabilità nell’area, specialmente dopo l’esperienza delle cosiddette “Primavere arabe” ma anche prima,  dopo l’attacco al Libano nel 2006, data a partire dalla quale si sono concentrati  alcuni meeting segreti tra i rispettivi vertici della sicurezza; un “rapprochement” tra Tel Aviv e Riyadh è altamente temuto da Teheran, che nei giorni recenti ha divulgato notizie di possibili coordinamenti dei suoi arci-rivali per l’elaborazione di un piano combinato d’attacco contro l’Iran in caso di risultato negoziale troppo sfavorevole ai loro dettami strategici. In verità un attacco appare improbabile, perché renderebbe da un lato  il rapporto a tre Iran-Arabia Saudita-Israele insanabile e senza uscita pacifica mentre dall’altro innescherebbe una reazione a catena dal Pakistan ( altro alleato che gli Usa vedono sempre più come una fonte di problemi e non come un elemento di “guadagno strategico”, con Islamabad sempre più schierato al fianco di Riyadh, anche come possibile “contributor” nucleare in risposta a Teheran) fino alle sponde del Libano, uno scenario che rappresenterebbe per gli Stati Uniti un incubo irrisolvibile e segnerebbe la fine di qualsiasi velleità di passaggio dal piano mediorientale allo scacchiere dell’Estremo Oriente, dove esercitare, nel “Pivot to Asia”, quel contenimento nei confronti della Cina tanto caro all’ex segretario di Stato Hillary Clinton. 

Le divergenti priorità tra le potenze regionali, Israele e Arabia Saudita, e la potenza globale loro alleata, gli Stati Uniti, hanno trovato nell’Iran il loro epicentro di scontro: starà soprattutto a Washington tranquillizzare i due alleati di cui, almeno nel breve periodo, non può fare a meno, anche per respingere ritorni russi, e , ad ampio raggio, cinesi, e contemperare le macro esigenze americane con quelle degli attori in gioco in Medio Oriente, Iran compreso, che ben comprende il ruolo dell’Arabia Saudita (Rouhani è stato sotto Khatami segretario dello Snsc e negoziatore di un accordo di sicurezza con Ryadh), ma non è disponibile ad essere relegato a un ruolo subalterno troppo stretto per la profondità strategica che Teheran è in grado di esercitare. 

Stefano Lupo, Research Fellow presso IranProgress.
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Iran Stati Uniti Israele Arabia Saudita Obama Rouhani sanzioni nucleare Ginevra2 gruppo 5+1 accordi Medio Oriente
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