Non c’è avversario nella regione che sia scientificamente spiato e monitorato dal Mossad e dai servizi militari israeliani, quanto l’Iran. Se dunque oggi il regime di Teheran è il grande avversario dell’Arabia Saudita, come l’Urss lo fu degli Stati Uniti, il passaggio successivo sembra scontato: israeliani e sauditi hanno molte cose in comune, a cominciare dal nemico per continuare con gli interessi strategici.
Per decenni, ogni volta che gli Stati Uniti vendevano armi ai sauditi – si trattasse di Phantom o di F-16 – Israele protestava, chiedendo di ridurre quantità di mezzi e tecnologie a bordo. Il mese scorso, per la prima volta, non ci sono state reazioni quando Trump ha annunciato nuovi contratti per cento miliardi di armi ai sauditi. Un segnale utile per capire ma è abbastanza per certificare? La grande alleanza fra lo stato degli ebrei e il custode dell’Islam è così scontata come sembra?
Il viaggio di Donald Trump a Riyadh e poi a Gerusalemme, è solo una conferma apparente. Con l’intento di disimpegnare sempre di più gli Stati Uniti dal Medio Oriente – esattamente come Barack Obama ma con cultura e modalità diverse – gli Stati Uniti hanno ceduto le chiavi della loro politica regionale all’Arabia Saudita. Lo slogan ufficiale dell’operazione è “Guerra al terrore”. La realtà è un’altra: rissa geopolitica, come ha dimostrato l’assurda guerra di parole e diplomazia scatenata dai sauditi contro il Qatar, pochi giorni dopo l’assunzione del mandato concesso da Trump.
Ma il problema di un’unità d’intenti fra Israele e sauditi è più complesso: non basta un nemico, nemmeno uno determinato come l’Iran. Proprio nel viaggio a Riyadh Donald Trump ha potuto certificare quello che a Washington i suoi consiglieri gli avevano spiegato prima di partire: l’America può scegliere di soddisfare l’Arabia Saudita o Israele, non entrambi allo stesso modo.
I sauditi non hanno mai amato i palestinesi né la loro causa. Avevano quasi ignorato l’intero processo di Oslo, lasciando che Arafat negoziasse da solo i termini di un accordo. Fino al vertice di Camp David nel 2000, quando s’incominciò a discutere del destino di Gerusalemme. Fu a quel punto, sul terzo luogo santo dell’Islam dopo Mecca e Medina, che i sauditi s’impuntarono contro possibili concessioni, contribuendo al fallimento di quel vertice negativamente storico.
Due anni più tardi, quando avanzarono il piano di pace firmato da re Abdullah e votato dalla Lega araba a Beirut – restituzione di tutti i territori occupati in cambio di pace piena da tutta la regione - i sauditi non volevano diventare i titolari di una trattativa così spinosa. Intendevano internazionalizzarla, assumendone una guida morale ma ripartendo le responsabilità politiche a tutto il mondo arabo. Il fatto che mai nessun primo ministro israeliano prendesse in considerazione il piano, spesso ignorandolo ostentatamente, non è mai piaciuto ai sauditi.
Sono queste incrostazioni che rendono impossibile un’alleanza strategica fra sauditi e israeliani: un conto è la consultazione e la collaborazione fra servizi e qualche contatto politico di basso livello; più complesso è costruire un fronte comune. Per quanto non amino i palestinesi, se i sauditi pretendono di essere i leaders del fronte sunnita, non possono ignorare il grido di dolore dei Territori occupati.
Dopo avere largamente accontentato i sauditi e le loro nuove ambizioni regionali, per soddisfare anche gli israeliani Trump avrebbe dovuto arrivare a Gerusalemme con un’agenda sostanziosa: trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv, nessuna obiezione all’ebraicizzazione di Gerusalemme Est araba che Israele sta metodicamente compiendo, luce verde alla costruzione di nuove colonie nei Territori. Se Trump avesse fatto questo, gli israeliani lo avrebbero celebrato come un messia. Ma avrebbe perso l’alleato saudita. E se l’amministrazione Trump deve scegliere quale sia il primo fra i due principali alleati dell’America nella regione, quello oggi non è Israele.
Ugo Tramballi, giornalista de Il Sole 24 Ore e ISPI Scientific Advisor