Escalation controllata delle violenze o guerra? Entrambe le opzioni sono plausibili: ora anche quella di una tregua, notizia delle ultime ore. Sebbene l’imprevedibilità della situazione a Gaza faccia pensare al rischio di una nuova guerra – sarebbe la quarta nell’arco di un decennio –, non è ancora chiaro cosa potrà accadere nei prossimi giorni.
L’ultimo episodio di questa lunga serie di scontri, raid aerei, incidenti di confine e rappresaglie è iniziato domenica 11 novembre, quando Israele ha lanciato un’operazione di intelligence sotto copertura a Khan Younis, nel sud della Striscia, nella quale erano stati uccisi sette palestinesi, tra cui un importante comandante militare di Hamas, Nour al-Din Muhammad Salama Baraka. Nella stessa operazione è morto anche un soldato israeliano. Un crescendo di violenze che ha visto oltre 300 razzi lanciati dalla Striscia di Gaza su Israele nell’arco di 24 ore. L’esercito israeliano ha risposto duramente bombardando circa un centinaio di obiettivi tra Rafah, Gaza e Khan Younis, alcuni dei quali riconducibili ad Hamas, fra cui la sede della tv ufficiale del gruppo islamista, al-Quds. Il bollettino medico, in costante aggiornamento, della Mezzaluna palestinese riferisce al momento di 6 palestinesi morti nella Striscia di Gaza e di un israeliano nel sud del paese. Iron Dome, il sistema missilistico israeliano dislocato su tutto il territorio nel tentativo di intercettare i missili che giungono da Gaza, ha bloccato oltre cento razzi diretti verso le città di Sderot, Be’er Sheva, Ashdod e Ashqelon. Mentre sirene e allarmi della sicurezza nazionale israeliana suonano incessantemente dal Mediterraneo al Mar Morto, l’esercito israeliano sta rinforzando le unità corazzate e di fanteria dislocate nel sud del paese, dalle parti di Sderot, a cui hanno fatto seguito i rinnovati proclami di ostilità di Hamas.
Tutto farebbe pensare al rischio di un rapido scivolamento verso un nuovo conflitto armato. Eppure, negli ultimi incidenti, così come in tutti quelli occorsi dal 30 marzo in poi, ossia dall’inizio delle cosiddette “marce palestinesi del ritorno”, è emerso quello che è apparso a tutti gli effetti come un “controllo” delle escalation “controllate”, forse nel tentativo di non far naufragare i mesi di colloqui multilaterali mirati proprio a calmare le acque nell’area. Ciononostante, entrambe le parti continuano ad infrangere le tregue raggiunte. A poco sono valsi sinora i tentativi portati avanti da Egitto e Nazioni Unite, interessati a chiudere una volta e per tutte la questione di Gaza e a evitare una pericolosa ondata di nuove ostilità. I colloqui avevano infatti prodotto misure concrete per allentare le tensioni, come l’apertura – seppur per poche ore – dei valichi di frontiera di Rafah e Erez, l’invio di aiuti umanitari e nuovi fondi (si stimano circa una quindicina di milioni di dollari) utili a pagare gli stipendi arretrati delle amministrazioni nella Striscia, grazie anche all’intervento del Qatar.
Al di là di una retorica fatta di distensione, tradotta nei fatti in violenza, gli eventi di queste ore celano un grande interrogativo: a chi giova una escalation? Per quale motivo Israele e Hamas troverebbero vantaggioso un conflitto? In tempi di soluzioni troppo semplici per problemi troppo complessi, di falchi in politica estera e in assenza di strategie di lungo periodo volte a dare soluzioni concrete ai problemi reali, la risposta militare potrebbe essere sembrata a qualcuno come l’unica soluzione per mascherare i problemi interni alle singole realtà coinvolte, l’unica in grado di ricompattare i fronti e consolidare nuovi termini e forze da contrapporre in un ipotetico negoziato di pace post-conflitto. Il processo di mediazione tra Israele e Hamas era stato duramente attaccato dai critici interni di entrambe gli schieramenti, i quali lo avevano inquadrato come un pericoloso segnale di debolezza o un inutile compromesso nei confronti della controparte.
Sul versante israeliano, le difficoltà in cui versa il governo Netanyahu, sempre in bilico tra il rischio di un ritorno anticipato alle urne e la necessità di contenere le spinte radicali dei suoi alleati, potrebbero essere dissipate dalla decisione di dichiarare guerra ad Hamas. Ma il rischio concreto sarebbe quello di aprire un vaso di pandora dagli effetti imprevedibili, soprattutto se passasse la linea massimalista di una parte dell’esecutivo israeliano di soluzione definitiva al problema rappresentato da Hamas a Gaza. Tuttavia il premier Benjamin Netanyahu non sembra volere una guerra, benché per ora non sia riuscito ad arginare quelle forze del suo governo dichiaratamente disponibili un’avventura di questo genere.
Non meno intricata si dimostra la questione sul versante della Striscia di Gaza, dove non esiste una risposta univoca che non si presti a una doppia chiave di lettura: una propriamente palestinese ed una esterna. Nel primo caso, dopo il fallimento della riconciliazione intra-palestinese mediata dall’Egitto e la marginalizzazione di Hamas e di Gaza dal cosiddetto “accordo del secolo” per una pace tra israeliani e palestinesi, il gruppo islamista si è trovato spalle al muro con una responsabilità duplice da affrontare: la grave crisi economica e la sfida estremista lanciata dai gruppi radicali locali (come il Jihad islamico palestinese o i Comitati di resistenza popolare) o dalle sue entità affini (basti pensare al braccio armato di Hamas, le Brigate Izzedin al-Qassam) che contestano le élites al potere nella Striscia. Il leader di Hamas, Yahya Sinwar, al pari di Netanyahu, ha bisogno di mostrarsi conciliante senza tuttavia tradire la propria debolezza agli occhi dello storico nemico. Allo stesso tempo però Sinwar non può o non vuole scontrarsi con le reazioni arabe e internazionali, che questa volta potrebbero decidere non appoggiare la causa di Hamas. Proprio quest’ultimo fattore si lega a doppio filo con la dimensione esterna della questione di Gaza. Da tempo la Striscia ha attirato gli appetiti di diversi player stranieri (Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Qatar e Iran), a vario titolo, tutti interessati a definire una propria porzione di potere e influenza in questo piccolo ma strategico avamposto vicino-orientale, al fine di disegnare strategie politiche coerenti nei sempre mutevoli equilibri mediorientali.
Così, tra contraddizioni e deterrenza reciproche, Israele e Hamas si trovano dinanzi a un bivio: decidere la pace o la guerra? Mai come in queste ore il futuro di Gaza è stato appeso a un filo altrettanto sottile.