Dopo due anni di intensi negoziati, Israele e Libano, due stati ancora formalmente in guerra, hanno raggiunto un accordo sulla definizione dei loro confini marittimi. Frutto della mediazione americana, l’intesa pone fine a una disputa durata più di dodici anni. Anche se è improbabile che esso possa dare il via a un processo di normalizzazione diplomatica nel breve termine, è evidente che l’accordo segna una svolta significativa nei rapporti bilaterali tra i due paesi e, in quanto tale, rappresenterà un fattore di stabilità per il futuro della regione. Per comprendere però la portata dell’intesa e le prospettive che questa apre è necessario guardare più attentamente all’origine della contesa e ripercorrere quali fattori abbiano permesso alle due parti di raggiungere un punto d’incontro.
Le radici della disputa
Fin dalla scoperta dei primi giacimenti alla fine degli anni Novanta, il gas naturale ha rappresentato per i paesi del Mediterraneo orientale allo stesso tempo un’opportunità di cooperazione e una causa di instabilità a livello regionale. Nel caso del Libano e di Israele, la disputa sui confini marittimi nasce da alcune questioni irrisolte, legate da un lato agli accordi bilaterali che i due paesi hanno raggiunto con Cipro e, dall’altro, alle rivendicazioni formalizzate da Beirut presso le Nazioni Unite. Dall’inizio della disputa fino al 2020, la contesa tra i due paesi riguardava un’area di circa 860 km2, compresi tra il confine richiesto da Israele in base all’intesa con Cipro del 2010, la linea 1, e quello presentato formalmente dal Libano all’Onu, la linea 23. Un primo tentativo di compromesso tra Israele e Libano venne portato avanti tra il 2011 e il 2012 dal diplomatico americano Frederic Hof, già mediatore del tentato processo di pace tra Israele e Siria. La proposta di Hof prevedeva per Libano e a Israele due porzioni equivalenti rispettivamente al 55% e al 45% della zona contesa, ma l’opposizione dei partiti libanesi Amal e Hezbollah finì presto per far deragliare le trattative. Nel 2013 un altro sforzo di mediazione portato avanti dagli Stati Uniti fallì, sancendo di fatto la fine dei negoziati. Già da questi primi tentativi risultò evidente la difficoltà di trovare un accordo sulle frontiere marittime tra due stati che, oltre a essere ancora formalmente in guerra, non hanno ancora raggiunto un’intesa riguardo il loro confine terrestre. La linea di demarcazione che divide i due paesi, conosciuta come “Blue Line”, fu infatti tracciata dalle Nazioni Unite nel 2000, rappresentando in quanto tale una misura temporanea che non risolveva le controversie esistenti. Fino al raggiungimento dell’accordo dell’ottobre 2022, la questione dei confini marittimi si è sommata quindi ad altre contese di carattere territoriale tra Israele e Libano, come quelle riguardanti lo status del villaggio di Ghajar e delle fattorie di Shebaʿa, territori controllati da Israele e reclamati dal Libano che continuano a fornire al partito-milizia Hezbollah la giustificazione per il mantenimento del proprio arsenale.
La ripresa dei negoziati e l’accordo
I negoziati sono ripresi a ottobre 2020, ad anni di distanza dall’ultimo incontro. Nonostante l’impegno profuso da parte americana, però, le trattative sono andate presto incontro a un nuovo periodo di stasi. La delegazione libanese si è presentata infatti al tavolo negoziale con delle nuove rivendicazioni. Se le prime trattative erano incentrate sull’area di 860 km2 che separava la linea 1 dalla linea 23, la nuova posizione libanese reclamava un ulteriore tratto di mare, esteso per circa 1430 km2 e comprendente parte del giacimento di Karish, scoperto nel 2013 e rivendicato per la sua interezza da Israele. Questa nuova proposta di confine – la linea 29 – si basava su nuovi studi idrografici condotti con il supporto dello UK Hydrographic Office. Tale posizione era però in contraddizione con le istanze già formalizzate dal Libano alle Nazioni Unite e anche per questo motivo è stata rigettata immediatamente da Israele e dagli Stati Uniti. Mentre i negoziati si avviavano verso un’inevitabile fase di stallo, in Libano il dibattito sulla posizione da mantenere nelle trattative si è gradualmente polarizzato. Se una parte dell’opinione pubblica e dei quadri dell’esercito si sono schierati a favore della linea 29 come base negoziale, alcune figure di spicco, tra cui il presidente della Camera Nabih Berri e l’ex primo ministro Sa’ad Hariri, hanno assunto un atteggiamento più conciliante, sostenendo invece la linea 23. Nella primavera del 2021 il dibattito si è acceso ulteriormente quando è stato reso noto che il blocco 9 del settore libanese poteva contenere ampie quantità di gas e che parte di questo potenziale giacimento, presto ribatezzato “Qana”, si estendeva in un tratto di mare reclamato da Israele. Questa situazione, già di per sé complessa, è stata poi esacerbata dalla retromarcia del presidente Aoun, che ad aprile 2021 si è rifiutato di ratificare il decreto che avrebbe reso ufficiale la nuova posizione libanese, passando quindi dall’essere un fervente sostenitore della linea 29 a un pragmatico fautore della linea 23. Di fronte a questi stravolgimenti, la posizione negoziale libanese ha risentito della mancanza di una chiara visione politica, rimanendo a lungo ostaggio delle contrapposizioni del dibattito interno. Quest’ambiguità di fondo ha contribuito a ostacolare i negoziati, portando a una nuova pausa nelle trattative a maggio 2021.
A ottobre 2021 l’amministrazione Biden ha cercato di dare nuovo impulso ai negoziati con la nomina di un altro mediatore, il senior advisor per la sicurezza energetica Amos Hochstein. Anche se con Hochstein le trattative hanno assunto una nuova forma – nella misura in cui la shuttle diplomacy ha sostituito gli incontri delle delegazioni nella città di confine di Naqoura – la nomina non ha cambiato la sostanza della mediazione americana, incentrata esclusivamente sul tratto di mare tra la linea 1 e la 23. Con la scelta di escludere la linea 29 dal tavolo delle trattative, Hochstein respingeva le rivendicazioni libanesi sul giacimento di Karish, dando di fatto il via libera a Israele per lo sfruttamento delle sue risorse. Le nuove richieste libanesi e lo stallo nei negoziati sono alla base delle tensioni affiorate tra giugno e luglio 2022, quando la reazione ostile di Hezbollah all’arrivo di una nave di estrazione nelle acque contese ha fatto sembrare il rischio di un nuovo conflitto sempre più concreto. La crisi è rientrata relativamente presto e una proposta di compromesso da parte libanese ha fatto ripartire i negoziati a fine luglio. Con questo nuovo posizionamento, Beirut decideva di rinunciare alle rivendicazioni massimaliste della linea 29 e di tornare alla linea 23, a patto che al Libano spettasse l’esclusivo controllo delle potenziali risorse del giacimento Qana. Per quanto aspramente criticata da alcuni ambienti della società civile libanese, e soprattutto dai parlamentari dell’opposizione eletti a maggio 2022, questa decisione ha permesso l’immediata ripresa dei negoziati. Dopo pochi mesi, a inizio ottobre 2022, le due parti hanno annunciato il raggiungimento di un accordo. La nuova linea di demarcazione, basata in larga parte sulla linea 23, mantiene il porzionamento di Qana tra i due paesi e pone Karish, il giacimento che aveva innescato la crisi di giugno, interamente all’interno delle acque israeliane. L’intesa prevede inoltre che la società che si occuperà dello sfruttamento delle risorse potenzialmente presenti nel giacimento di Qana dovrà corrispondere una quota degli introiti a Israele e, oltre a ciò, identifica gli Stati Uniti come mediatore in caso di future controversie legate all’interpretazione dell’accordo.
Le implicazioni dell’accordo
Nei giorni successivi all’annuncio molti commentatori hanno guardato positivamente al risultato, affermando che l’intesa rappresenta una vittoria diplomatica ed economica per entrambi i paesi. Tuttavia, dal punto di vista economico, i benefici dell’accordo risultano asimmetrici. Se esso potrà garantire nuove entrate alle casse israeliane già nel breve periodo, per il Libano i profitti tarderanno ad arrivare. Nel settore marittimo libanese, infatti, non è ancora stata accertata la presenza di gas in quantità commerciabili, e anche se questa dovesse essere confermata, lo sfruttamento delle risorse richiederà anni. Politicamente, invece, l’intesa rappresenta un successo sia per l’attuale coalizione di governo israeliana sia per la classe dirigente libanese. Per il premier israeliano Yair Lapid l’accordo può considerarsi una vittoria sulla quale far leva in vista delle elezioni previste per il 1° novembre. Lo spettro di una nuova guerra con Hezbollah sollevato a giugno si è ora allontanato e l’establishment militare del paese sembra essere d’accordo nel ritenere questo risultato come una garanzia di maggiore stabilità, almeno nel breve periodo. Anche per questi motivi gli aspri toni utilizzati dall’ex primo ministro Benjamin Netanyahu per criticare l’intesa sembrano aver avuto poca presa sull’elettorato israeliano. Per la classe politica libanese, invece, la risoluzione della disputa sui confini marittimi costituisce un risultato da sventolare a fronte di decenni di insuccessi e d’incapacità decisionale. Lungi dall’essere risolutivo dei problemi del paese, l’accordo aggiunge una nuova carta nel mazzo del presidente uscente Michel Aoun e dei suoi alleati, rafforzando la loro posizione in vista dei prossimi appuntamenti politici, dall’elezione del nuovo presidente della Repubblica alla formazione del nuovo esecutivo. Non è escluso poi che, in assenza di riforme efficaci, lo sfruttamento di eventuali risorse e la gestione degli introiti possano alimentare il sistema di corruzione e clientelismo che mantiene l'élite politica libanese salda al potere. Anche per questo motivo, è difficile pensare che il Libano possa trovare nei giacimenti di gas mediterraneo quell’ancora di salvezza di cui ha disperatamente bisogno.
Il risultato raggiunto in queste settimane nasce dalla convergenza di fattori esogeni, come la crisi energetica europea, e di circostanze interne ai due paesi, dall’allarmante situazione economico-politica del Libano alla campagna elettorale permanente in Israele, passando per la lotta per la successione del presidente Michel Aoun. A momenti alterni, queste dinamiche hanno contribuito ad accelerare e dilatare i tempi del negoziato. Anche se l’accordo sui confini marittimi non servirà a rimuovere i due paesi da quel limbo tra pace e guerra in cui si trovano, esso rappresenta una svolta positiva, seppur con evidenti limiti.