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Israele-Palestina: In cammino verso l'apartheid

Ugo Tramballi
13 gennaio 2023

Ha avuto scarsa rilevanza mediatica una votazione avvenuta il mese scorso all'Assemblea generale dell'Onu. E' comprensibile: di qualsiasi conflitto ci si occupi al Palazzo di Vetro, raramente ciò che viene deciso ha la forza di determinare le vicende sul campo.

In quel caso, su richiesta dell'Olp, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina che dal 1974 ha lo status di osservatore (risoluzione n. 3237), l'assemblea votava se chiedere alla Corte di Giustizia Internazionale dell'Aja di produrre un'opinione legale sulle “conseguenze dell'occupazione, la colonizzazione e l'annessione israeliane, comprese le misure atte ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status della città santa di Gerusalemme”. A favore si sono espressi 87 paesi: contrari 26, astenuti 53. Gli europei hanno votato in ordine sparso. L'Italia fra i no, sebbene non posso credere che alla Farnesina qualcuno avesse pensato che la richiesta mettesse in qualche modo in discussione il diritto d'Israele di esistere.

Né c'era nulla che il voto potesse provocare a breve termine. Alla Corte dell'Aja servono fra uno e due anni per deliberare. E sarà solo un parere che non avrà alcuna esecuzione pratica fino a che non lo prenderà in considerazione – se lo farà - la Corte Criminale Internazionale, sempre all'Aja. Solo la decisione di quest'ultima sarebbe vincolante per i paesi membri dell'Onu.

La comunità internazionale dovrebbe essere lieta che nella loro lotta d'indipendenza i palestinesi usino le armi della diplomazia e delle leggi internazionali e non la violenza della disperazione. Il voto promosso dall'Olp è una specie d'investimento. In un futuro non troppo lontano, è sperabile, potrebbe contribuire a chiarire dal punto di vista politico e alla fine legale che cosa è l'occupazione israeliana dei Territori palestinesi, se ancora si può parlare solo di occupazione.

A giugno di quest'anno saranno 56 anni da che ai palestinesi non è concessa l'indipendenza nazionale né la cittadinanza israeliana. Israele non spende quasi nulla a favore degli occupati soggetti all'autorità militare dell'occupante che permette la colonizzazione ebraica di grandi spazi dei loro territori. Tutto questo è contrario ai valori fondamentali del mondo democratico, oltre che delle leggi. Perfino Vladimir Putin è più trasparente degli israeliani: agli abitanti dell'Ucraina che ha occupato garantisce la piena cittadinanza russa.

Come spiega Alon Pinkas sul quotidiano Haaretz, i palestinesi chiedono solo di “definire l'essenziale caratteristica della presenza israeliana nei territori conquistati nel giugno del 1967. La questione non è se si tratti di un'occupazione ma se sia de facto un'annessione”. La domanda non è di poco conto.

L'anno scorso uno studio di Amnesty International stabiliva che nei confronti dei palestinesi, Israele praticava l'apartheid: un'accusa che non è corretta. La brutalità e l'illegalità dell'occupazione è indiscutibile. Ma dopo il drammatico fallimento del processo di pace di Oslo, gli israeliani evitano una risposta sul futuro: essendo una risposta molto difficile, è come se negassero la stessa esistenza della questione palestinese. La soluzione sarà dei due stati per due popoli, come proponeva appunto Oslo; o quella ancor più improbabile di uno stato bi-nazionale? O è già in corso un'annessione degli uni sugli altri?

Apartheid è quando gli abitanti dello stesso stato sono sottoposti a leggi e diritti diversi. Come in Sudafrica dove era addirittura la grande maggioranza nera ad essere segregata dalla minoranza bianca. In Israele più del 20% della popolazione è palestinese e per molti versi ha meno diritti degli ebrei israeliani. Ma è rappresentata alla Knesset, svolge liberamente attività politica; e i partiti che la rappresentano conseguirebbero migliori risultati se adottassero un maggiore pragmatismo politico.

Gerusalemme Est araba è stata annessa da Israele ma la gran parte dei 600mila abitanti palestinesi rifiuta di richiedere la cittadinanza dello stato ebraico. I pochi che lo fanno si trovano di fronte a un muro burocratico perché il vero obiettivo delle amministrazioni israeliane è ridurre la popolazione palestinese della città. I palestinesi di Gaza non sono tecnicamente più occupati ma restano chiusi nella gabbia della striscia.

Infine, restano i quasi 3 milioni di palestinesi della Cisgiordania, a tutti gli effetti sotto un'occupazione dai connotati anomali e sempre più brutali. Ma formalmente è occupazione. Se tuttavia l'opinione richiesta alla Corte internazionale fosse che in tutti questi anni Israele ha trasformato la sua presenza in annessione de facto, allora il concetto di apartheid sarebbe molto più giustificato.

I probabili due anni e più di ponderato lavoro delle corti dell'Aja, dell'Assemblea generale dell'Onu, dell'eventuale successivo dibattito del Consiglio di sicurezza - e anche delle aspettative palestinesi – potrebbero essere accelerati e semplificati dal nuovo governo israeliano di estrema destra.

“Il popolo ebraico non può occupare la terra che gli appartiene” è sempre stata la logica dei partiti nazional-religiosi che considerano la Cisgiordania parte di Israele biblico. Oggi quelle forze sono nell'esecutivo. Anche Bibi Netanyahu lo pensava ma la sua intelligenza politica e le sue relazioni internazionali lo spingevano a restare vago sulla questione.

Questo invece è ciò che ha twittato il giorno in cui è tornato ad essere premier, sostenuto dai voti necessari degli estremisti ultra-ortodossi: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutta la Terra d'Israele”: ovunque dal Mediterraneo al fiume Giordano. I suoi alleati nazional-religiosi hanno anche intenzione di ricostruire colonie nella striscia di Gaza, abbandonata da Ariel Sharon nel 2005. Saranno dunque loro a toglierci ogni scrupolo e ogni dubbio sull'uso delle parole. Che apartheid presto sia anche quaggiù, come un tempo in Sudafrica e Alabama.

 

Le opinioni espresse in questo articolo non riflettono necessariamente le posizioni dell'ISPI

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Israele palestina MENA Benjamin Netanyahu
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AUTORI

Ugo Tramballi
ISPI Senior Advisor

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