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Medio oriente

Israele - Striscia di Gaza: Lampi di guerra

11 maggio 2021

Escalation di violenze tra Israele e la Striscia di Gaza. Appelli internazionali alla calma per allontanare lo spettro di un nuovo conflitto.

 

Secondo giorno di raid e violenze tra Israele e la Striscia di Gaza dove, nel corso delle ultime ore, l’aviazione israeliana ha risposto al lancio di 300 di razzi con oltre 140 bombardamenti mirati. Il ministero della Salute nell’enclave palestinese governata da Hamas, ha denunciato l’uccisione di 26 persone tra cui nove bambini. Una circostanza smentita dalle autorità israeliane che parlano invece di tre minori uccisi nell’esplosione di un razzo di Hamas. Nel crescendo di tensioni, che montavano da settimane intorno a Gerusalemme, la scintilla che ha dato fuoco alle polveri è stato il dispiegamento di militari israeliani alla Spianata delle Moschee e nel quartiere di Sheikh Jarrah, epicentro delle proteste per l’ennesimo sgombero di una trentina di famiglie palestinesi dalle loro case. L’arrivo dei militari è stato accolto da una fitta sassaiola e da un ultimatum di Hamas, che chiedeva agli israeliani di ritirare gli agenti dalla Spianata – luogo sacro per i musulmani – o di pagarne le conseguenze: alla scadenza, fissata per le 18, le sirene hanno cominciato a suonare e una pioggia di razzi ha colpito il sud di Israele e la periferia di Gerusalemme. Era dal 2014 che non accadeva e ha segnato il superamento di “una linea rossa” – come l’ha definita il premier israeliano Benjamin Netanyahu – che non andava varcata. Immediata la reazione e i raid dell’aviazione israeliana con un bilancio di morti che, in un solo giorno a Gaza, non si registravano da anni. È ancora presto per dire se come già per la prima e la seconda, gli scontri alla Spianata delle Moschee, segnalano i prodromi di una nuova, terza, Intifada o se siamo all’inizio di un ennesimo conflitto armato tra Israele e Hamas. Ma di certo tra la frustrazione dei palestinesi, l’assenza di ogni iniziativa internazionale di dialogo e l’incertezza politica che in Israele ha favorito l’ascesa di movimenti nazionalisti e dell’ultradestra, gli ingredienti per una tempesta perfetta ci sono tutti. 

 

 

Un’occasione per Bibi?

La nuova fiammata di violenze avviene in un momento estremamente precario per la politica israeliana. Dopo la quarta tornata elettorale in due anni, il cinque volte premier Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare un governo. Mentre tra i suoi rivali i colloqui per la creazione di una coalizione progrediscono, proprio ora che le accuse per corruzione contro di lui stanno per arrivare in tribunale. Tra le forze politiche israeliane sembra essersi determinata un’alleanza – che comprende centristi, nazionalisti e persino arabi israeliani – finalizzata a spodestare ‘King Bibi’ e allontanarlo una volta per tutte dal centro della scena politica. Ma la crisi delle ultime ore potrebbe capovolgere la situazione, riportando Netanyahu in gioco come premier ad interim di un governo d’emergenza. “È sempre troppo presto per dare Netanyahu per spacciato” osservava appena qualche giorno fa il New York Times, elogiando la capacità del primo ministro più longevo della storia di Israele di mutare gli eventi a suo favore. Più volte in passato Netanyahu si era presentato agli israeliani come unico ‘garante’ della stabilità del paese e oggi, non c’è dubbio alcuno, sarebbe pronto a tutto pur di restare in sella.

 

Il ‘silenzio’ delle capitali arabe?

Eppure, che la rabbia dei palestinesi che vivono a Gerusalemme Est e in Cisgiordania dovesse esplodere era prevedibile: dopo un Ramadan di tensioni, gli sfratti a Sheikh Jarrah e Silwan e il rinvio delle elezioni palestinesi, le prime in 15 anni, i motivi di tensione erano tanti. E se ieri gli israeliani celebravano la ‘Giornata di Gerusalemme’, in ricordo dell'occupazione della città dopo la Guerra dei Sei giorni, nel 1967, sul fronte opposto, sabato, i palestinesi ricorderanno l’anniversario dei 73 anni dalla ‘Nakba’, la catastrofe, coincisa con l’espulsione di centinaia di migliaia di famiglie dalle loro case e villaggi in quello che oggi è lo Stato di Israele.

Ma sul fronte internazionale, alle blande dichiarazioni di condanna dei paesi della regione che hanno recentemente normalizzato i rapporti con Israele attraverso gli Accordi di Abramo, si contrappongono le roboanti dichiarazioni del presidente turco Erdogan: “La Turchia farà tutto ciò che è in suo potere per mobilitare il mondo intero, e soprattutto il mondo islamico, per fermare il terrorismo e l’occupazione di Israele” ha detto in due colloqui telefonici con l’omologo palestinese, Mahmoud Abbas e il leader politico di Hamas Ismail Haniyeh. Unico altro paese dell’area che si è espresso in toni durissimi contro “la barbarie” israeliana è stata la Giordania. La monarchia hashemita – custode dei luoghi sacri nella Città Santa – osserva con crescente apprensione la situazione tra Israele e la Striscia di Gaza. Il Regno accoglie una folta comunità di palestinesi il cui malcontento preoccupa Amman che ha da poco fatto i conti con un fallito colpo di Stato. A nome dei paesi arabi ha parlato il segretario generale della Lega Araba, Ahmed Aboul Gheit, ha condannato i raid “indiscriminati e irresponsabili” condotti da Israele sulla Striscia di Gaza a seguito del lancio di razzi dall'enclave palestinese, definendo Israele responsabile della “pericolosa escalation” e ha esortato la comunità internazionale “ad agire immediatamente per fermare la violenza”.

 

Usa e Ue: una questione diritti umani?

Anche se quella in atto è la prima escalation militare dell’era Biden, sono in pochi ad aspettarsi da parte statunitense un cambio di rotta significativo rispetto alla passata amministrazione. Ieri il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha convocato una riunione urgente sulla crisi ma ha fallito nell’adottare una dichiarazione comune. Secondo fonti diplomatiche interne, gli Stati Uniti avrebbero ritenuto “controproducenti” commenti pubblici in questa fase. D’altronde il presidente americano non ha fatto segreto di voler progressivamente disimpegnare gli Stati Uniti dal Medio Oriente per concentrarsi su scenari ritenuti più cruciali per l’interesse nazionale. Eppure da diversi giorni sono molte le pressioni indirizzate al dipartimento di Stato – che ha fatto della difesa dei diritti umani una cifra nella gestione dei rapporti bilaterali – perché faccia sentire la sua voce in difesa di quelli palestinesi. Una richiesta che avrebbe preso in contropiede l’attuale amministrazione, orientata ad ammansire Israele nella speranza che non deragli gli sforzi americani per rilanciare l'accordo nucleare con l’Iran. Ma gli Stati Uniti non sembrano gli unici presi in contropiede: sulla crisi n atto, l’Unione Europea è ferma alle dichiarazioni di condanna di rito, in cui attribuisce ‘a entrambe le parti’ a palestinesi e israeliani le responsabilità della crisi, senza spendersi davvero per una de-escalation. “Può avere senso cercare di togliere priorità alla questione israelo-palestinese visti tutti gli altri problemi nella regione e nel mondo – osserva Ghaith Al-Omari, ex negoziatore palestinese ora con il Washington Institute for Near East Policy – ma anche se scegli di ignorarlo, questo problema non ti ignorerà”.

 

Il commento

di Annalisa Perteghella, ISPI Research Fellow And Scientific Coordinator Of Rome Med

“In quanto sta accadendo a Gerusalemme emerge la principale vulnerabilità degli Accordi di Abramo: sebbene paesi come gli Emirati Arabi Uniti abbiano presentato la normalizzazione delle relazioni con Israele come uno strumento per avanzare la causa palestinese, in queste ore appare piuttosto chiaramente che essa non rientra più tra le loro priorità. Al contrario, la situazione in cui ci troviamo oggi è frutto anche della decisione di normalizzare le relazioni senza chiedere in cambio reali progressi sullo stato dei diritti dei Palestinesi”. 

 

* * *

A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications)

 

 

 

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