Proprio oggi si è tenuto in videoconferenza un Consiglio europeo il cui piatto forte, ma per alcuni anche piuttosto indigesto, è stato il Recovery Fund. Da questo incontro non è emerso un compromesso finale. Tanto più che questo non riguarda solo il Recovery Fund ma anche il bilancio Ue 2021-2027 su cui il Fondo dovrà appoggiarsi. È auspicabile che il compromesso venga trovato nel mese di luglio durante uno (o anche due) Consigli straordinari che si terranno quindi durante il semestre di presidenza tedesca e, auspicabilmente, di persona. Come si sa, le videoconferenze non sono il contesto ideale per trovare la quadra su accordi così complessi. L’Italia dovrebbe rappresentare il beneficiario numero uno del Recovery Fund (oltre 150 miliardi di euro tra contributi e prestiti secondo la Commissione) e ha dunque una grande responsabilità. Dovrà infatti convincere i recalcitranti paesi ‘frugali’ del Nord (ma non solo loro) che sarà in grado di spendere i soldi attraverso investimenti di ‘qualità’ e realizzare riforme attese da troppi anni. Cosa può dunque proporre l’Italia in termini di investimenti e quali riforme dovrebbe porre in essere?
Investire sì, ma con accortezza
Se c’è un punto su cui tutti, ma proprio tutti i 27 paesi membri, sono d’accordo è che i fondi messi a disposizione dal Recovery Fund debbano essere utilizzati non solo per uscire dalla crisi da coronavirus ma anche per aumentare le potenzialità di crescita dei paesi beneficiari intervenendo sulle loro debolezze strutturali. Un cambio di paradigma di non poco conto rispetto alla precedente crisi finanziaria quando l’intervento della troika si basava su ricette ‘lacrime e sangue’ e riforme tese soprattutto a tagliare la spesa pubblica. Questa volta l’enfasi è davvero sulla crescita e quindi la questione centrale diventa la qualità della spesa e delle riforme.
A supporto degli investimenti e delle riforme la Commissione intende utilizzare la “Recovery and Resilience Facility” che assorbirà buona parte (fino a 560 miliardi) dell’intero Recovery Fund. La Commissione indica anche con chiarezza le principali destinazioni d’uso dei fondi: transizione verde e digitalizzazione. Per quanto riguarda specificamente l’Italia, la Commissione ritiene importante che vengano anticipati i progetti di investimento pubblici maturi e che si promuovano quelli privati. Uno specifico ambito di intervento è legato al Green Deal europeo e mira a trasformare l’Italia in una economia climaticamente neutra ricomprendendo sia gli interventi per prevenire catastrofi idrogeologiche legate a fenomeni metereologici estremi (sempre più frequenti) sia la produzione di energia da nuove fonti rinnovabili, l'infrastruttura per l'energia elettrica e l'efficienza energetica. A queste aree di intervento si aggiungono anche la mobilità sostenibile (ad esempio rinnovando il parco dei mezzi di trasporto pubblico locale), i deficit infrastrutturali (particolarmente acuti nel Sud Italia) nell’ambito della gestione delle acque e dei rifiuti e la trasformazione industriale verso produzioni più sostenibili (attraverso una politica industriale in grado di fare scelte selettive e coraggiose).
Riguardo invece alla digitalizzazione dell’economia, punto centrale della strategia indicata dalla Commissione è quello delle infrastrutture digitali in un contesto come quello italiano caratterizzato da bassi livelli di intensità e conoscenze digitali delle imprese (soprattutto le PMI e le microimprese). Al riguardo la Commissione ricorda il ritardo nella copertura della fibra, soprattutto nelle zone rurali e periferiche del nostro paese. Sempre in quest’ambito la Commissione sottolinea l’importanza di investire in capitale umano attraverso il sostegno all’istruzione, la formazione e la ricerca nella direzione di un rafforzamento della cooperazione tra scienza, istruzione e industria.
Insomma la via da seguire per una migliore qualità della spesa è piuttosto chiara. Spetta all’Italia – che non ha obiettivamente un track-record molto lusinghiero nell’utilizzo dei fondi europei – dimostrare che saprà percorrerla.
Riforme: se non ora quando?
Qualunque sia alla fine l’ammontare e la composizione del Recovery Fund (il compromesso potrebbe prevedere una riduzione rispetto ai 750 miliardi di euro e una revisione della divisione tra prestiti e contributi), i paesi beneficiari dovranno accompagnare gli investimenti con piani di riforme credibili.
Cosa chieda la Commissione europea all’Italia anche quando si tratta di riforme non è un segreto. Basta guardare alle ‘country specific recommendations’ periodicamente inviate agli stati membri. Nelle ultime per l’Italia (20 maggio 2020) un primo gruppo di riforme riguardano il mercato del lavoro. La Commissione ricorda che le condizioni del mercato del lavoro erano in miglioramento prima di COVID-19 e che nel 2019 il tasso di occupazione (al 64%) era risultato il più alto di sempre. Ma rimaneva comunque inferiore alla media europea. Per questo si invita l’Italia a promuovere ulteriormente l'integrazione nel mercato del lavoro delle donne e dei giovani inattivi, a ridurre il peso della tassazione sul lavoro (e sulle imprese) e a “fornire redditi sostitutivi e un accesso al sistema di protezione sociale adeguati, in particolare per i lavoratori atipici”.
Un altro – e attiguo – gruppo di riforme riguarda l’istruzione e la formazione professionale, con specifico riferimento all’apprendimento/miglioramento delle competenze digitali (soprattutto per gli adulti in età lavorativa e il ‘distance learning’). Ma non solo. L’Italia continua a presentare un gap importante rispetto ai principali paesi Ue: il conseguimento delle competenze di base varia molto tra Nord e Sud e il tasso di abbandono scolastico è ben al di sopra della media Ue (13,5 % contro 10,3 % nel 2019), soprattutto per gli studenti che non sono nati nell'Unione (33 %). Ancora troppo bassi sono inoltre la percentuale di laureati in scienze e ingegneria e il tasso di istruzione terziaria. Andrebbero poi prese delle misure che favoriscano la formazione professionale (soprattutto nel campo delle tecnologie digitali) da parte delle imprese.
Gli altri campi sui quali la Commissione invita l’Italia a intervenire chiamano in causa i ‘soliti noti’ delle debolezze strutturali del nostro paese: la lotta alla corruzione attraverso, in particolare, una maggiore trasparenza del settore pubblico e una revisione delle procedure di appalto che trovino un giusto equilibrio tra il necessario monitoraggio e la tempestività dell’azione; la riduzione dei tempi della giustizia (sia penale che civile); la riforma della pubblica amministrazione (nella direzione di una maggiore efficienza e della digitalizzazione).
Infine, si guarda con preoccupazione alla tenuta del settore bancario in un contesto in cui si rischia un ulteriore aumento dei crediti deteriorati. Al riguardo la Commissione invita a ridurre i ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione, a continuare a sostenere la liquidità delle aziende e a procedere alla “promozione di soluzioni sostenibili per i debitori solvibili colpiti dalla crisi, in particolare evitando gli automatismi giuridici”.
Insomma la via maestra è già ampiamente segnata dalla Commissione sia in merito agli investimenti che alle riforme. Sta all’Italia dimostrare che sarà in grado di seguirla, rassicurando così anche i recalcitranti paesi del Nord. Questi ultimi infatti evidenziano che il controllo della spesa e delle riforme realizzate/da realizzare dovrebbe avvenire nell’ambito del Semestre europeo (il ciclo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio nell'ambito dell'UE). Una prospettiva che non li tranquillizza per nulla perché ricordano che nessun paese è mai stato ‘punito’ per aver disatteso le regole. Formalmente la sanzione esiste (lo 0,2% del Pil) ma non è mai stata applicata. Nel 2016 ad esempio è stata accertata l’infrazione da parte di Spagna e Portogallo, ma la sanzione comminata è stata pari a zero euro. È probabile quindi che i paesi del Nord chiedano procedure di monitoraggio più strette. Il loro punto è chiaro: i miliardi che arriveranno dal Recovery Fund dovranno rappresentare davvero un ‘una tantum’ e i paesi beneficiari dovranno attivare quegli investimenti e quelle riforme che ne accrescano strutturalmente le potenzialità di crescita (in modo che in futuro non abbiano bisogno di altri piani di aiuto europei). Quindi una condizionalità maggiore rispetto al tradizionale Semestre europeo farà probabilmente parte del compromesso finale. Ma l’Italia non dovrebbe necessariamente temerla se, come sembra, l’intento del Recovery Fund rimarrà quello di un rilancio strutturale della nostra crescita. È un rilancio di cui abbiamo bisogno per evitare che dopo la crisi il nostro paese torni a crescere dello zero virgola.