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Serraj a Roma

Italia in Libia: carte in regola, ma senza ambiguità

Arturo Varvelli
07 maggio 2019

Da sempre l’Italia paga cara la convinzione altrui di essere un paese ambiguo e inaffidabile. Storicamente, continui cambi di fronte e giri di valzer hanno alimentato questa convinzione, che si è rilevata un forte limite alla credibilità italiana in politica estera. Un pregiudizio, questo, che l’Italia ha fatto poco per contrastare, anche nell’ultimo decennio. Il caso libico ne è un chiaro esempio. La narrativa prevalente, e autoindulgente, rispetto all’intervento contro il regime di Gheddafi nel 2011 è che esso fu voluto e perseguito dalla Francia di Sarkozy. Spesso questo racconto dimentica che l’Italia, seppur a fatica e contro i propri interessi (un trattato di amicizia aveva sancito la relazione speciale nel 2008) decise di allinearsi alle altre potenze alleate, soprattutto agli Stati Uniti quando, pure essi recalcitranti (ricordate il “leading form behind”?) decisero di intervenire per rovesciare il regime di Gheddafi. Il leader libico fu abbandonato anche dall’Italia. Forse le circostanze internazionali e la brutalità della repressione di Gheddafi non avrebbero permesso il suo mantenimento al potere ma l’Italia rinunciò a una funzione di indirizzo e guida della crisi. La passività italiana ci mise davanti a fatti compiuti, una risoluzione internazionale di condanna del regime che permetteva un intervento armato, e Roma fu costretta a fare bandwagoning, un termine politico che significa fare il salto sul carro di quello che si pensa il vincitore, la coalizione internazionale contro il colonnello. Dall’anno seguente sono cominciate le recriminazioni: il caos libico risultato da quell’intervento, ampiamente preventivabile ma sottostimato dai decisori politici, è stato tra le concause dei flussi migratori e dell’interruzione delle nostre importazioni energetiche, oltre che di una altra serie di conseguenze sullo scenario africano e mediorientale.

Se giudicassimo dalle recenti dichiarazioni del premier Giuseppe Conte e di altri esponenti politici della maggioranza penseremmo che anche oggi l’Italia si appresta a fare bandwagoning passando dal supporto del governo delle Nazioni Unite a quello di Haftar. Eppure, come allora, non sarebbe nel nostro interesse. Non solo perché questo riaprirebbe una complessa e delicata partita con i gruppi di potere che controllano le aree di transito e partenza dei migranti in Tripolitania, ma anche e soprattutto perché metterebbe l’Italia in condizioni di concorrenza tra i supporter di Haftar. Il Feldmaresciallo è stato abile nel mettere insieme potenze variegate come Francia, Russia, Egitto, Emirati Arabi e Arabia Saudita, divenendo il federatore di quegli interessi e ottenendo copertura politica (l’amicizia di due potenze con seggi ONU permanenti), aiuti economici, militari e di intelligence. Cosa può offrire Roma a Haftar che gli altri non abbiano già offerto? Inutile cercare di saltare su un carro già in corsa, guidato da tempo da numerosi altri fantini.

A questo stadio, meglio mantenere la barra dritta, evitare il cambio di fronte e ripartire da un’analisi più chiara e realistica della situazione sul campo. L’offensiva di Haftar non si è rivelata adeguata per superare la resistenza dei gruppi armati tripolini, e non è mai arrivata a meno di dieci chilometri dai quartieri più centrali della capitale, dove sono presenti tutte le istituzioni del Governo di Unità Nazionale. Questa situazione ha permesso alle milizie di riorganizzarsi  e darsi un minimo di coordinamento, facilitando in questo modo una convergenza tra di esse e la creazione di un fronte più compatto con l’obiettivo di contrastare proprio Haftar: l’arrivo a supporto di Tripoli di alcuni dei migliori reparti di Misurata ha condotto la situazione sul terreno a un sostanziale stallo. Inoltre, dato militarmente assai rilevante, le forze di Haftar si trovano molto distanti dal proprio quartier generale in Cirenaica, con una catena di rifornimenti molto lunga, e in zona desertica, che rende molto difficile gli approvvigionamenti. È probabile che l’attuale scontro si trasformi in un conflitto di più lunga durata nel quale il supporto (o la mediazione) dei sostenitori internazionali di Haftar sarà decisivo. Se la risposta della comunità internazionale, come peraltro sembra evidente, non sarà dura nei suoi confronti, Haftar potrebbe percepire che c’è ancora spazio per continuare, magari con maggior insistenza e violenza, l’azione militare. Per questo non gli va dato ulteriore credito. È facile intuire come il supporto di Egitto, Emirati e Arabia Saudita a una parte del conflitto tenderà a essere compensato da quello di Turchia e Qatar verso l’altra parte. Difficile pensare che in questo contesto Haftar possa vincere nel breve periodo.

Con Haftar si può e si deve certamente dialogare ma i presupposti del dialogo devono essere saldi. Piuttosto bizzarro verificare che mentre inneggia al jihad per compattare le milizie del suo fronte (alcune di chiara formazione e impronta salafita) cerchi di raccontare alla comunità internazionale, spalleggiato da una recente intervista del ministro degli Esteri francese Le Drian, che sta combattendo contro i terroristi di Tripoli. Non abboccare a questa nuova retorica di “contrasto al terrorismo” è il primo presupposto per non commettere nuove scellerate valutazione e prendere decisioni controproducenti. Guardando alle milizie di Misurata, non sono forse quelli che Haftar bombarda in questi giorni a essersi sacrificati per tutti noi combattendo contro i terroristi di ISIS a Sirte appena un paio di anni fa? Senza poi dimenticare che Haftar ha 75 anni; anche nel caso improbabile in cui dovesse arrivare a conquistare la capitale, difficile pensare che possa tenerla sotto controllo nel lungo periodo fronteggiando una guerra insurrezionale. Ancor più difficile immaginare una stabilità nel momento, che non sarebbe lontano, di una sua successione. Difficile spiegare questo innamoramento nei confronti di Haftar.

L’Italia ha la possibilità di dialogare con entrambe le parti in conflitto ma può mantenere tale capacità solo se non abbandona la parte con cui ha maggiori relazioni e legami, Tripoli e Misurata. Essere coerenti nel perseguimento dei nostri interessi ci rende più credibili sia verso gli attori libici, Haftar compreso, sia verso quelli internazionali. Forse arriverà il momento in cui Serraj sarà sacrificabile, ma non può esserlo un governo di mediazione che conservi alcuni equilibri in Tripolitania e non può esserlo un principio di inclusività e compromesso, unica alternativa a conflitti sanguinosi. Il governo italiano deve cercare una mediazione ma non deve confondere lo status con il ruolo. Al momento più che perseguire una vera mediazione, sembra evidente che il tentativo sia quello di utilizzare la crisi libica per uscire dall’isolamento internazionale nel quale l’Italia si era auto-confinata per diverse motivazioni: dal dibattito acceso e poi sfociato nella crisi diplomatica con la Francia, alla questione dei gilet gialli, fino alle accuse mosse da Di Battista; ma anche a una tensione naturale che questo governo per il proprio indirizzo politico ha con l’Europa. Inoltre Roma si è giocata un po’ le carte che aveva con il presidente statunitense Trump dopo che è stato firmato il memorandum sulla via della Seta. Conte sta utilizzando la crisi libica per tornare ad essere un interlocutore, ma senza un vero fronte compatto “occidentale” che passa da accordo con gli altri attori europei e gli Stati Uniti, difficile pensare che questa mediazione possa avere successo. La Russia ha un’ambizione competitiva nei confronti degli Stati Uniti perché vorrebbe diventare il mentore di una fase di mediazione dell’area (i colloqui di Astana ne sono un esempio), ma proprio per questo si è dimostrata molto più collaborativa e meno propensa a dare carta bianca a Haftar. Possibile che Mosca possa esercitare nel futuro una funzione calmierante sul generale Haftar in cambio del riconoscimento di questo ruolo internazionale.

Un rischio evidente di questa crisi è determinato dal fatto che la recrudescenza della rivalità tra Est e Ovest possa trasformarsi da politico-militare a istituzionale. Questa frattura è stata contenuta a fatica nei mesi passati anche grazie alla tenuta di alcune istituzioni fondamentali, come la Banca Centrale e la Compagnia Nazionale petrolifera. Nonostante il tentativo di creare delle branche parallele ed autonome nell’ovest, queste non hanno mai ricevuto alcun riconoscimento da parte della comunità internazionale. Soprattutto nel caso che la situazione sul campo non volga a favore di Haftar, potrebbe profilarsi il pericolo di un sostegno internazionale a questa divisione.

 

In conclusione l’Italia ha ancora molte carte in regola per occupare un ruolo fondamentale nella crisi e salvaguardare i propri interessi, a cominciare da l’unica ambasciata occidentale aperta a Tripoli.  Ma solo con una linea coerente, evitando le storiche ambiguità e contribuendo a ricreare uno spirito collaborativo coi partner europei potrà ambire a esercitare quel ruolo di indirizzo verso gli altri attori della crisi.

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AUTORI

Arturo Varvelli
Co-Head, ISPI MENA Centre

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