Con la nomina dell’ex primo ministro norvegese Jens Stoltenberg a segretario generale designato della Nato si è chiusa, in un modo per certi aspetti inaspettato, la lunga parabola della successione ad Anders Fogh Rasmussen, che lascerà l’incarico il prossimo 30 settembre, dopo il termine del vertice dell’Alleanza di South Wales. Il nome di Stoltenberg è emerso con forza negli ultimi giorni, soppiantando quello di altri candidati più o meno accreditati, e imponendosi al di là delle obiezioni che l’idea di un possibile nuovo segretario generale “nordico” aveva alimentato. Il fatto che l’annuncio della nomina segua di poche ore il termine della visita in Europa del presidente Obama è un fatto significativo e lascia presumere un ruolo attivo dell’amministrazione Usa nel dirimere il nodo delle candidature. I prossimi mesi e, soprattutto, le scelte del nuovo segretario permetteranno di comprendere meglio quale indirizzo questi cercherà d’imprimere a una Nato destinata ad affrontare, in futuro, una complessa fase di transizione. Alcune considerazioni sembrano, tuttavia, poter essere sviluppate già da adesso.
Innanzitutto, come accennato, Stoltenberg s’inserisce in una ormai lunga striscia di segretari generali provenienti dai paesi dell’Europa settentrionale. Se si esclude l’eccezione dello spagnolo Javier Solana (segretario generale del 1995 al 1999) e gli interim degli italiani Balanzino (nel 1994 e nel 1995) e Minuto Rizzo (fra il dicembre 2003 e il 1° gennaio 2004), il danese Rasmussen è stato, infatti, preceduto dall’olandese de Hoop Scheffer (2004-2009), dal britannico Robertson (1999-2003), dal belga Claes (1994-1995) e dal tedesco Wörner (1988-1994), responsabile del “traghettamento” dell’Alleanza dalla guerra fredda al nuovo mondo post-bipolare. Questa prevalenza della componente “nordica” è stata oggetto di critica in varie occasioni da parte degli altri membri; soprattutto negli ultimi anni, a fronte del proliferare dei fattori di rischio sullo scacchiere meridionale e all’accresciuta rilevanza del teatro mediterraneo. In questo senso, la scelta di Stoltenberg rischia di accentuare le frizioni esistenti e di fornire alimento a un dibattito talora polemico intorno alla futura postura dell’Alleanza.
In secondo luogo, il segretario generale designato, pur confermando la regola non scritta che vuole al vertice politico della Nato un europeo, per bilanciare il peso del Saceur (Supreme Allied Commander Europe) statunitense, appartiene a uno dei pochi paesi che non è anche membro dell’Ue. Questo “disaccoppiamento” acquista ulteriore significato se si considera come, fra le due organizzazioni, sia in corso da tempo un intenso confronto, legato alla ricerca, da parte di Bruxelles, di spazi d’autonomia per una sua azione nel campo della sicurezza e della difesa. Coerentemente con la linea dei suoi predecessori, Barack Obama ha tenuto, sulla questione, un atteggiamento ambiguo, in una certa misura favorito dalle scelte di politica estera statunitensi. Un maggiore coordinamento con la Politica Estera di Sicurezza e Difesa (Pesd) costituisce, tuttavia, un elemento cru-ciale per l’avvenire dell’Alleanza Atlantica, e ciò a maggior ragione in una fase storica come quella attuale, caratterizzata da tagli drastici (e, con ogni probabilità, strutturali) alle spese militari.
In terzo luogo, e collegandosi alla questione delle spese militari, la nomina di un politico norvegese sembra premiare un paese che – in controtendenza rispetto alla maggioranza dei partner europei – ha aumentato in questi anni, in modo significativo, il bilancio per la Difesa e ha intrapreso una massiccia campagna di acquisizioni per il rinnovo dei propri assetti, soprattutto aerei e navali. La Norvegia spende oggi 7,2 miliardi di dollari per le Forze Armate e alimenta, nel quadro del programma pluriennale 2011-14, un programma di acquisizioni di 6,9 miliardi, tale somma è destinata raggiungere i 9,45 miliardi nel quadro della programma pluriennale 2015-19. Sebbene anche la Norvegia sia lontana dall’obiettivo fissato dall’Alleanza di destinare alla Difesa una quota pari almeno al 2% del Pil, queste sue scelte ne stanno, tuttavia, accrescendo il peso, sia in termini di capacità proprie sia di contributo alle attività dell’Alleanza, anche se, in questo campo, non sono mancate frizioni, ad esempio all’epoca dell’intervento in Libia.
Gli scenari che apre l’arrivo di Jens Stoltenberg al vertice dell’Alleanza Atlantica sono, quindi, diversi e rispecchiano la complessità delle dinamiche che si intrecciano all’interno dell’organizzazione. Trovare un punto di equilibrio sarà parte importante dei compiti del nuovo segretario generale. Tuttavia, la possibilità di definire un assetto stabile per gli anni a venire dipenderà solo in una certa misura da lui. Gli appuntamenti elettorali di quest’anno negli Stati Uniti e in Europa influiranno in modo consistente tale processo, così come, in un’ottica più ampia, lo faranno gli esisti delle elezioni presidenziali statunitensi del 2016. I risultati del vertice di South Wales forniranno una buona cartina di tornasole rispetto a possibili evoluzioni future. Una cartina di tornasole che il segretario generale designato potrà studiare dalla (relativa) tranquillità del suo status, anche se proprio a South Wales l’ufficializzazione della sua nuova posizione avrà come primo effetto quello di provocare un ennesimo rimescolamento delle carte in tavola.