La leadership di Jiang Zemin prende avvio in un momento di grave crisi di legittimazione per il governo cinese, anche a livello internazionale, ed è chiamata per questo ad adottare degli importanti aggiustamenti della politica estera del Paese. Gli obiettivi erano rompere l’isolamento diplomatico seguito ai fatti di Tiananmen e a far fronte agli importanti cambiamenti intervenuti sulla scena mondiale, all’indomani dell’implosione dell’URSS, che sancirono la fine della Guerra fredda e del sistema bipolare. La Repubblica Popolare di Cina si trovava infatti priva di una definizione del suo posto nel mondo, dopo aver giocato un ruolo cruciale nel gioco triangolare di Washington degli anni Settanta.
La politica di “buon vicinato”
“Ricostruire la legittimità del Partito, rassicurare i vicini (per rassicurare il mondo), lavorare per trovare la giusta collocazione della Cina nel nuovo assetto internazionale”: erano questi gli imperativi cui si trovava di fronte la terza generazione di governanti guidata da Jiang Zemin, la cui nomina era comunque da intendersi come “transitoria”, priva com’era di alcun appoggio tra i militari e con uno scarso credito internazionale.
In tali circostanze, sul fronte estero, il nuovo leader si vide costretto a seguire inizialmente le direttive impartite da Deng Xiaoping nell’ambito della cosiddetta “Linea politica in 28 caratteri” (ershiba zi fangzhen二十八字方针), che suggerivano una linea di condotta prudente e il mantenimento di un basso profilo, riassumibile nella formula taoguang yanghui 韬光杨辉 (“dissimulare le proprie capacità senza esporsi”), quale strategia di sopravvivenza del Partito/Stato in un clima internazionale ostile.
In effetti, fino alla metà degli anni Novanta la politica estera della Cina popolare si limitò essenzialmente a riparare i danni alla statura della nazione determinati dalla repressione militare del 4 giugno 1989, partendo da stringere rapporti di buon vicinato con i paesi limitrofi. Nell’ambito di questa cornice, uno dei tratti maggiormente distintivi della politica estera di Jiang Zemin è costituito dall’elaborazione di una politica rivolta ai paesi della periferia (zhoubian guojia 周边国家), cosiddetta politica della periferia (zhoubian zhengce 周边政策), o “di buon vicinato” (mulin zhengce 睦邻政策). Questa si inserisce all’interno di quella che il politologo statunitense Avery Goldstein ha definito la grand strategy di Pechino, destinata ad accrescere il peso internazionale del Paese, evitando di scatenare reazioni di contro-bilanciamento (in primis da parte degli Stati Uniti).
Il perno di questa nuova politica ruotava intorno al concetto di Nuova sicurezza (xin anquan zhuyi 心安全注意). Rifacendosi ai Cinque principi della coesistenza pacifica e condannando al contempo la vecchia e datata mentalità della politica di potenza, il concetto era da intendersi, secondo alcuni studiosi, quale risposta diretta all’espansione della NATO verso Est e ai tentativi di Washington di rafforzare le sue alleanze e gli accordi di cooperazione in materia di sicurezza nel mondo. In questo senso era l’espressione delle aspirazioni cinesi nel nuovo ordine post-Guerra fredda.
I principali destinatari della nuova politica erano sia le Repubbliche centro asiatiche emerse dalle ceneri dell’Unione Sovietica, con le quali Pechino avviò immediatamente un dialogo costruttivo volto a risolvere le dispute confinarie per appianare alcuni problemi risalenti all’epoca zarista, oltre che a stabilizzare le relazioni reciproche, sia le nazioni del Sudest asiatico, con cui i rapporti non erano stati particolarmente idilliaci nelle decadi precedenti. Lo scopo era, da un lato, dare rassicurazioni in merito al fatto che, a seguito della repressione del 4 giugno 1989, il Paese «non sarebbe tornato all’antica politica della porta chiusa». Dall’altro, fugare i dubbi circa l’interesse della Cina post-Tiananmen a sfidare radicalmente l’ordine politico nell’Asia Orientale e Sudorientale, o ad assumere un ruolo egemonico in Asia, alla luce del crescente potere economico, politico e diplomatico acquisito dal Paese dopo il Nanxun. Le aspirazioni cinesi erano piuttosto quelle di diventare un partner indispensabile e un’alternativa potenziale al potere occidentale guidato dagli Stati Uniti nel Pacifico. La crisi finanziaria asiatica, intervenuta nella seconda metà degli anni Novanta, ha rappresentato in tal senso una grande opportunità per Pechino, le cui scelte le hanno valso il plauso internazionale, oltre che regionale.
L’Asia Pacifico, la Russia e le Nazioni Unite: l’azione di Jiang
Per la costruzione di buone relazioni con i paesi limitrofi della regione Asia-Pacifico, la leadership di Jiang Zeminsi rese protagonista di alcuni passi diplomatici fondamentali in ambito sia bilaterale sia multilaterale – sia all’interno dei meccanismi già esistenti, come l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN), sia attraverso la costituzione di nuovi meccanismi (il Gruppo dei cinque seguito dalla nascita della Shanghai Cooperation Organization in Asia Centrale; la Cooperazione Economica Asia-Pacifico -APEC- nell’Asia Pacifico).
Nel contesto centro-asiatico, un ruolo centrale venne giocato soprattutto dal miglioramento dei rapporti con Mosca, già avviato nel corso degli anni Ottanta e coronato dalla visita di Gorbachev nella capitale cinese nel maggio del 1989, nel bel mezzo della crisi di Tiananmen. A seguito della prima visita ufficiale del nuovo presidente russo Boris Yeltsin in Cina, nel dicembre 1992, i due Paesi istituzionalizzarono un sistema di riunioni al vertice semestrale, inquadrando le relazioni bilaterali dapprima nell’ambito di una “partnership costruttiva” (nel 1994), poi modificata in “partnership costruttiva strategica” e infine, nel 1997, in “partnership strategica cooperativa orientata verso il XXI secolo”. Partendo da tali basi, le relazioni con Mosca hanno continuato a rimanere privilegiate anche con le leadership successive, al punto che quelle sino-russe sono state tra le poche relazioni bilaterali ad essere state menzionate all’interno del Libro bianco pubblicato alla vigilia delle celebrazioni per il settantesimo anniversario della RPC, dedicato alla “Cina e il mondo nella nuova era” (Xin shidai de zhongguo yu shijie 新时代的中国与世界).
Non meno rilevante è stato il contributo della Cina di Jiang alla governance internazionale e alla sicurezza globale, attraverso un graduale coinvolgimento nelle operazioni di pace delle Nazioni Unite, che può essere considerato come l’emblema della “conversione” al multilateralismo, senza che questo implicasse l’abbandono da parte cinese della tradizionale preferenza per le relazioni di tipo bilaterale. Al contrario, la contestuale costruzione di una rete di partnership bilaterali, costruite ad hoc a seconda degli interlocutori, poteva essere considerata quale valida alternativa a un sistema di alleanze, nel tentativo di plasmare un nuovo ordine mondiale favorevole alla Cina.
Rassicurare il mondo
Forte di tali successi (ma complice anche la dipartita di Deng Xiaoping nel febbraio del 1997), la leadership di Jiang è pronta, con l’avvio del suo secondo mandato, per l’adozione di misure più autonome e ardite, meno improntate sulla difensiva e maggiormente proiettate alla cooperazione internazionale, attraverso un’azione combinata di “diplomazia dei vertici”, costruzione di partnership strategiche, crescente cooperazione in seno alle organizzazioni internazionali e regionali, che contribuiscono a elevarne la statura, complici anche alcuni avvenimenti che giungono a compimento nella seconda metà degli anni Novanta, sebbene avviati dalla leadership precedente – è il caso del ritorno delle ex colonie di Hong Kong e Macao alla madrepatria, rispettivamente nel 1997 e nel 1999 – come pure alcuni eventi fortuiti che fanno emergere la Cina quale “grande potenza responsabile” (fuzeren daguo 负责人大国) – è il caso della crisi finanziaria asiatica e le misure adottate da Pechino per arginarla. Spicca in questo senso la (ri)normalizzazione dei rapporti sino-statunitensi, coronata dal viaggio di Stato di Jiang Zemin negli Stati Uniti nell’ottobre del 1997 – il primo vertice tra i due paesi in dodici anni – e la restituzione della visita in Cina del presidente Bill Clinton, nel maggio 1998.
Ma il secondo mandato di Jiang coincide anche con l’avvio di alcune iniziative che contribuiscono ad allargare gli orizzonti della politica estera cinese. Tra tutte la politica (o strategia) dell’andar fuori (zou chuqu zhanlüe 走出去战略), lanciata nel 1999 e volta a incentivare gli investimenti cinesi all’estero, attraverso un processo di internazionalizzazione delle aziende di Stato, la quale anticipa sia la strategia diplomatica a 360 gradi del suo successore Hu Jintao (cosiddetta all-round diplomacy, quan fangwei waijiao 全方位外交), sia, soprattutto, il progetto globale della Nuova via della seta di Xi Jinping.
La Cina di Jiang Zemin è dunque la Cina che ha “responsabilmente” rassicurato il mondo, partendo dalla sua periferia, oltre ai mercati finanziari, contribuendo a rafforzare il proprio ruolo sullo scacchiere internazionale, al punto che all’alba del nuovo millennio il Paese sembrava avviato verso il recupero di quella “centralità” che le era un tempo appartenuta. Seguendo le direttive impartite dal piccolo timoniere era riuscita a lavare l’onta di Tiananmen, a placare i timori relativi alla sua ascesa economica e a guadagnarsi la nomea di “potenza responsabile” grazie alla politica lungimirante adottata, oltre che nella gestione della crisi finanziaria asiatica, anche in altri contesti, tra cui le operazioni di mantenimento della pace dell’ONU e la cooperazione fornita all’interno delle organizzazioni regionali, anche sul piano della sicurezza.
Per tali motivi, nel momento in cui Jiang passava il testimone a Hu Jintao, la Cina aveva ragione di essere ottimista circa il proprio futuro. Nel Rapporto politico, pronunciato all’apertura del XVI Congresso del Partito, Jiang Zemin prevedeva, infatti, per le successive due decadi un periodo di “opportunità strategica” (zhanlüe jiyu qi 战略机遇期), determinato, tra le altre cose, dal relativo indebolimento degli Stati Uniti, all’indomani degli attentati dell’11 settembre e dell’avvio della guerra in Afghanistan, nell’ambito della guerra al terrorismo lanciata dall’amministrazione Bush. In questo periodo, la Cina avrebbe infatti potuto continuare a concentrarsi sulle problematiche interne, in primis sullo sviluppo economico e sul miglioramento delle condizioni di vita di fette sempre maggiori della popolazione, unica garanzia di stabilità della società e condicio sine qua non per la legittimazione del Partito. Tanto più che nel luglio del 2001 era riuscita a raggiungere un obiettivo a lungo anelato, ossia vincere i diritti di accoglienza delle XXIX Olimpiadi, laddove nel mese di dicembre aveva fatto il suo ingresso in seno all’Organizzazione mondiale del commercio.