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Commentary

Jihad indonesiano: guerra fra titani per “amore” di Raqqa

Federica Zoja
14 settembre 2016

L'attacco di matrice islamista verificatosi lo scorso 28 agosto nella chiesa di San Giuseppe a Medan, nel nord-est dell'isola di Sumatra, riaccende l'attenzione sull'allarme jihad in Indonesia, gigante demografico del Sud-Est asiatico di norma ignorato dai mezzi di comunicazione occidentali mainstream.
Eppure, il singolo episodio è una spia di quanto, nella galassia del radicalismo, sta accadendo di nuovo nell'arcipelago indonesiano e non solo.

I fatti. Padre Albert Pandiangan sta celebrando la funzione quando, fra i fedeli seduti, uno mette le mani nello zaino che ha in grembo in modo convulso. Ne segue una deflagrazione che ferisce alcuni vicini e l'uomo stesso, non abbastanza “fuori gioco” però da alzarsi e avventarsi sul sacerdote con un coltello. Il prete viene ferito a un braccio, alcuni fedeli incolumi bloccano l'uomo e chiamano la polizia. Materiale con il logo del sedicente Stato islamico (Isis) viene poi rinvenuto dagli agenti nella borsa, solo parzialmente danneggiata. Un portavoce del nucleo investigativo indonesiano, poche ore dopo, conferma la natura terroristica del fatto e l'affiliazione dell'assalitore all'organizzazione islamista armata.

L'assalto indonesiano richiama in modo inquietante quello avvenuto in Francia il 26 luglio (Normandia, villaggio di Saint-Etienne de Rouvray), purtroppo assai più “efficace” dal punto di vista dell'attentatore, riuscito a tagliare la gola dell'85enne Jacques Hamel. 

Perché la scelta del termine inquietante? Perché fra le armi più potenti di cui gode oggi il terrorismo c'è la lente dei mezzi di comunicazione, in particolare del web, che trasmette in un batter di ciglia, a distanza di migliaia di chilometri, i dettagli di un attentato, potenziandone anche il messaggio propagandistico.
Il 2 settembre la polizia indonesiana ha illustrato il profilo dell'attentatore: un 17enne “auto-radicalizzato”, ossessionato dalla figura di Abu Bakr al-Baghdadi, diventato “esperto” di esplosivi sul web.
Ma è inutile sminuire la portata di quanto accaduto definendo il ragazzo, come avvenuto inizialmente nel caso dell'attentatore franco-tunisino di Nizza, come uno squilibrato isolato dalla rete terroristica internazionale.
Anche in questo caso, c'era un contatto stabile con un amico partito per Raqqa pochi mesi prima.

Il contesto indonesiano. Dal 2002, anno insanguinato degli attentati di Bali, il rischio islamista non è affatto scomparso dal più popoloso paese islamico al mondo, ma è stato combattuto, monitorato, sviscerato in tutte le sue pieghe da un sistema anti-terroristico messo in piedi dall'alleato statunitense. Una macchina da guerra nata per contrastare al-Qaeda e le sue ramificazioni orientali, non Daesh (acronimo arabo di Stato islamico di Iraq e Grande Siria, con una sfumatura sprezzante per gli arabofoni).

Un virus che si è manifestato ufficialmente in Indonesia in gennaio, con l'attentato di Giacarta (rivendicato da Isis, 4 morti e 4 feriti gravi) e ha conquistato il primo lupo solitario – per lo meno per quanto è giunto alle orecchie dei reporter – appunto a fine agosto.

La cellula investigativa Densus 88, deputata alla lotta al terrorismo – e non immune da gravi violazioni dei diritti umani – stima che almeno 500 cittadini indonesiani siano partiti per i teatri mediorientali con l'Isis e che essi in massima parte si preparino a rientrare per minare la stabilità nazionale. Quanto ai combattenti sul territorio, ora in fuga verso l'Indonesia orientale, dove avrebbero più facilità a nascondersi, hanno giurato fedeltà al califfo fra i primi nella galassia islamista armata, già nell'estate del 2014.

L'Institute for Policy Analysis of Conflict (Ipac, indonesiano) dedica alle diverse correnti del jihadismo nazionale approfondimenti di rilievo che mettono in evidenza un elemento fra tutti: l'affiliazione allo Stato islamico non implica né omogeneità di strategie né di obiettivi né di formazione. Anzi: fra i capi dei movimenti affiliati è guerra per la conquista della leadership assoluta.

Secondo le informazioni a disposizione di Ipac, Bahrun Naim (classe 1984), fra gli elementi di origine indonesiana di spicco nell'organigramma di Daesh in Siria, ha trovato supporto logistico in patria fra i giovanissimi criminali di Solo, in particolare nella gang Hisbah Team (anche Tim): adolescenti sbandati, senza prospettive, esperti nel compiere razzie nei ristoranti e nei bar, sanguinari. 

Nell'ultimo biennio, alcuni di loro sono stati avvicinati da elementi dello Stato islamico “addestrati” in Siria e spinti a cambiare obiettivi: non più attività commerciali, ma stazioni e commissariati di polizia, e concittadini non musulmani. 

Con poco successo, però: non abituati a usare esplosivi o affrontare imprevisti, finiscono spesso per essere intercettati prima di portare a termine la “missione”.

Altri invece sono stati avvicinati in prigione e quindi esposti alla radicalizzazione ideologica. Pare che Naim non sia soddisfatto e che si prepari a inviare una guida carismatica a Giacarta per prendere in pugno la situazione.

Poi c'è la vicenda personale – emblematica anche di una porzione di storia nazionale – di Abu Gafar, nome di battaglia di Nazaruddin Mochtar, prima combattente nel conflitto etnico-religioso di Ambon, sul finire degli anni Novanta e, 20 anni dopo, coordinatore dell'attacco islamista di Giacarta, all'inizio del 2016. Un uomo che ha scalato, fuori e dentro le carceri indonesiane, l'intera gerarchia della ribellione politica, prima, e del jihad, dopo. E ora così influente che, di nuovo sotto tutela della legge, è definito “detenuto rischioso”, di cui prevenire assolutamente “l'accesso a uno smartphone”. È provato che Abu Gafar ha partecipato a una riunione di alto livello fra luogotenenti di Daesh nel novembre del 2015.

Al momento, i mujaheddin indonesiani in Siria, secondo fonti incrociate di intelligence, risultano fra i più ambiziosi. 

Quanto ai movimenti affiliati che stanno sgomitando con maggiore verve in Indonesia, non sempre in armonia con Raqqa, emergono i Partigiani del Califfato (Jamaah ansar al-khilafah, i cosiddetti Jak), la cui guida ideologica, Aman Abdurahman, è in carcere ma comunque in grado di condurre un braccio di ferro ideologico con il potente Bahrumsyah, fra i volti più noti del jihad indonesiano nel “Siraq”, conosciuto anche come Abu Mohammad al-Indonesi. 

E' lui il leader più messo in discussione dai connazionali “rampanti”, pronti a scatenare una guerra di cui i servizi indonesiani temono l'esplosione da un momento all'altro.

Bahrumsyah è anche il numero uno della Katibah Nusantara: in pratica, la brigata congiunta indonesiano-malese più fedele al sedicente califfato.

L'uomo “ponte” verso un altro tassello del progetto radicale in Oriente. Ma questa è tutta un'altra – violenta, drammatica e poco nota – storia, che dimostra la necessità pressante di un coordinamento di natura transnazionale fra i servizi di intelligence. Una collaborazione stabile e competente, che monitori modalità e linee direttrici seguite da Daesh nel suo piano di espansione globale.

 

 

Federica Zoja, giornalista “Avvenire”

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Federica Zoja
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