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Commentary
John Kerry, Israele e il ruolo internazionale dei ‘nuovi’ Stati Uniti
01 Agosto 2014

Il fallito tentativo del segretario di stato americano, John Kerry, di negoziare un cessate-il-fuoco fra le Forze armate israeliane e le milizie di Hamas impegnate nella Striscia di Gaza, è una vicenda che pone importanti interrogativi sia riguardo all’evoluzione dei rapporti fra Washington e Tel Aviv nel corso degli ultimi anni, sia – più in generale – riguardo alla capacità della diplomazia Usa di continuare a incidere, nel prossimo futuro, sul delicato sistema degli equilibri mediorientali. In particolare, ciò che spinge alla riflessione è che i maggiori ostacoli alla missione di Kerry siano giunti, più che da Hamas, dalla decisa opposizione del primo ministro israeliano, Benjamin Netenyahu, secondo il quale le condizioni prospettate del segretario di stato sarebbero state più favorevoli alle forze palestinesi che a quelle dello Stato ebraico. Nonostante i tentativi fatti per ridimensionare la portata dell’accaduto, la vicenda esprime bene, infatti, da un lato il solco che ormai separa Washington da Tel Aviv sui temi della sicurezza regionale, dall’altro le difficoltà che la Casa Bianca incontra nel ‘richiamare all’ordine’ un alleato che, per quanto tradizionalmente riottoso, pure ha negli Stati Uniti uno dei suoi pochi solidi sostegni a livello internazionale.

Che i rapporti fra Stati Uniti e Israele non fossero più quelli degli anni della Global War on Terror è chiaro da tempo. Dopo i segnali positivi che hanno marcato gli inizi della prima amministrazione Obama (fra questi, il sostegno alle realizzazione di ‘Iron Dome’, cui i capitali statunitensi hanno contribuito in modo importante), le divergenze fra i due paesi si sono via via accentuate. L’intenzione di Washington di giungere a una stabilizzazione per via negoziale del Medio Oriente e la volontà del presidente di dare enfasi alla dimensione soft dell’azione statunitense hanno contribuito molto a questo risultato. Entrambi questi punti erano essenziali in vista dell’auspicato ‘pivot to Asia’, sia per liberare risorse politiche ed economiche da investire nel nuovo scacchiere, sia per rafforzare il credito di Washington dopo quello che era visto come il fallimento del progetto neoconservatore di esportazione, manu militari della democrazia. Entrambi, tuttavia, si scontravano frontalmente con la percezione ‘hard’ della sicurezza coltivata della leadership israeliana e accentuatasi – nel turbolento panorama politico nazionale – con lo spostamento a destra dell’asse del paese in seguito alla caduta nel marzo 2009 del gabinetto guidato da Ehud Olmert.

In questa prospettiva, le tensioni attuali appaiono il prodotto di un processo consolidato, sebbene irregolare nel suo sviluppo. Al di là delle convergenze tattiche, la posizione dei governi di Washington e Tel Aviv diverge, oggi, su una lunga serie di issues, quali – fra le altre – il modus vivendi individuato dagli Stati Uniti con l’Iran di Hassan Rouhani e il procedere, fra alti e bassi, dei negoziati intorno alla questione nucleare iraniana. Anche se ciò non significa un ‘rovesciamento delle alleanze’ in Medio Oriente, appare chiaro come tale teatro sembri aver perso, per gli Stati Uniti, la centralità strategica che ha avuto nel passato. L’abbandono (parziale) del ‘pivot to Asia’ non ha – in altre parole – portato a un ritorno su larga scala di Washington in Medio Oriente. Questa scelta non dipende solo da questioni di bilancio. Se le difficoltà dell’economia statunitense negli scorsi anni ne hanno, infatti, favorito il ripiegamento (understretching), questo sembra tuttavia il prodotto anche di un più ampio ripensamento della loro posizione nel mondo, ripensamento avviato negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra fredda e perseguito – seppure in maniere diverse – dalle amministrazioni che si sono susseguite a partire dagli inizi degli anni Novanta.

Per amore o per forza, Israele (ma il discorso vale anche per gli attori regionali) dovrà, quindi, abituarsi a degli Stati Uniti sempre meno presenti e, in ogni caso, sempre più ‘egoisti’ nelle loro azioni. Nel caso della ‘mediazione Kerry’, la necessità di conseguire in tempi rapidi un risultato ritenuto ‘premiante’ da un’amministrazione già in difficoltà su altri fronti, e tenuta sotto costante pressione dall’azione congiunta dell’opposizione repubblicana e della ‘fronda’ democratica, è stata il movente primo dietro alle scelte di Washington. Una logica interna sembra, così, avere fatto premio sul perseguimento di obiettivi più ampi. Sotto molti aspetti, ciò appare la conferma della tendenza consolidata delle amministrazioni statunitensi a guardare – per quanto riguarda le ricadute in termini di consenso – più alla sfera interna che a quella esterna. Ciò, tuttavia, da un altro punto di vista, è anche la conferma di un cambio di paradigma intervenuto nella politica Usa degli ultimi venti/venticinque anni. Cessata la necessità ‘esogena’ di essere presenti in maniera attiva nelle diverse crisi internazionali, Washington sembra aver fatto, oggi, della propria agenda interna e degli equilibri congressuali il criterio di riferimento per dispiegare un attivismo sempre più cauto.

Le implicazioni di tale evoluzione trascendono, quindi, gli eventi di questi giorni e la stessa questione degli assetti mediorientali. Come rilevato in apertura, il fallimento della ‘mediazione Kerry’ e gli eventi che l’hanno seguita hanno posto in luce le difficoltà di Washington nel richiamare all’ordine l’‘alleato’ israeliano. In questo senso, l’altra faccia della postura ‘ripiegata’ assunta dagli Stati Uniti è rappresentata dal ridimensionamento della loro capacità d’influenza e, in particolare, di quella su alleati ormai considerati ‘storici’. Ancora una volta, non si tratta di mettere in discussione in modo radicale il ruolo degli Stati Uniti sulla scena mondiale. Si tratta, piuttosto, di osservare come – come già accaduto sulla scena europea – il loro coinvolgimento dovrà essere dato sempre meno per scontato e sempre più visto in termini potenzialmente competitivi rispetto agli interessi dei loro diversi partner. Resta aperto l’interrogativo su quale sarà la portata di questo processo e quali le sue conseguenze. Anche su questi punti, tuttavia, qualche segnale potrà giungere dal prossimo vertice Nato, quando a Celtic Manor gli alleati atlantici saranno chiamati, anche su questo punto, a cercare di ridefinire una volta di più i complessi termini del loro rapporto.

Gianluca Pastori è professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.

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