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AFRICA

Economia e voto in Kenya: sfida alla crescita?

Giovanni Carbone
03 giugno 2022

In un contesto internazionale già denso di incertezze, il Kenya tra pochi mesi torna al voto. Un passaggio che nelle tornate precedenti non è mai stato indolore è reso ancora più incerto dall’uscita di scena del presidente Uhuru Kenyatta, al termine del suo secondo mandato e non più ricandidabile. Ma come arriva il Paese leader dell’Africa orientale all’appuntamento che si profila all’orizzonte?

La crisi Ucraina – con i suoi effetti sull’inflazione alimentare ed energetica, nonché l’attesa flessione nella domanda dell’export kenyota dovuta al rallentamento generale dell’economia globale – non potrà che penalizzare anche Nairobi e indurre una revisione al ribasso delle iniziali attese di un’espansione del 6% per il 2022. La questione aperta è naturalmente l’ampiezza di questo impatto e la capacità di tenuta dell’economia del Paese.

 

Una delle economie africane più vitali

Da dentro e da fuori, il Kenya esprime da tempo una grandissima vitalità ed energia. Un Paese innovativo e dinamico come pochi in Africa. Quella kenyota, però, è un’esuberanza accompagnata da alcuni eccessi che ad essa sembrano almeno in parte legati, come una corruzione notevole anche a queste latitudini e momenti elettorali turbolenti.

Terza economia subsahariana per dimensione (109 miliardi di dollari di Pil nel 2021, superata solo da Nigeria e Sudafrica), nella graduatoria della Banca Mondiale (Ease of Doing Business 2020), il Kenya sta davanti all’Italia come contesto favorevole alle attività imprenditoriali. Non è un caso che Nairobi sia da sempre sede e crocevia “prescelto” da business e organizzazioni internazionali nella regione. Proprio la capitale è il fulcro attorno a cui ruota un ecosistema di innovazione tecnologica – la cosiddetta “Silicon Savannah” – ormai consolidato. Non si tratta solo della pionieristica, rapida e stupefacente penetrazione registrata dal sistema dei pagamenti attraverso la rete mobile (lo studiatissimo caso di M-Pesa), ma anche di esperienze che incrociano settori che vanno dalla transizione verde alla logistica. A contribuire sono anche livelli di istruzione e formazione particolarmente elevati nel raffronto con altri Paesi africani. Sono questi alcuni degli elementi che rendono il Kenya il vero cuore pulsante della East African Community, un mercato di 180 milioni di abitanti – ne fanno parte Tanzania, Uganda, Rwanda, Burundi e Sud Sudan – nonché la meglio integrata tra le otto Comunità Economiche Regionali riconosciute dall’Unione Africana. Secondo misure messe a punto da un’agenzia dell’ONU, dall’Unione Africana e dall’African Development Bank, il Kenya è secondo solo al Sudafrica per grado di integrazione economica (commerciale, produttiva, finanziaria, ecc.) con gli altri stati dell’area.

 

Crescita lenta ma stabile

Nei venti anni passati, Nairobi non ha attirato il tipo di lodi raccolte da altre economie africane in virtù dei loro più brillanti tassi di crescita. È anzi stata lenta a innestare bene la marcia. Dopo una fase relativamente sottotono, l’economia kenyota ha però preso un’andatura di tutto rispetto, riportando un 4,7% medio nel 2010-2021. L’andamento regolare seguito nei passati quindici anni è stato interrotto solo da brusche ma brevi frenate in corrispondenza di crisi internazionali (quella finanziaria globale prima, il Covid-19 poi). Dal 2010 circa, e con più chiarezza dal 2014 a seguito della fine del superciclo delle commodities, Nairobi è passata dal rimanere sotto al sistemarsi stabilmente sopra i tassi di crescita media dell’Africa subsahariana. Come altre economie non direttamente legate all’export di singole o di poche risorse energetiche o minerarie, si è dimostrata meno soggetta a oscillazioni, più resistente e performante. Assorbita rapidamente la contrazione pandemica (dal -0,3% nel 2020 al 5,5% del 2021), per il 2022, come detto, prima della guerra in Ucraina era attesa una crescita del 6,0%.

Il rilancio economico degli anni recenti è passato per l’espansione degli investimenti infrastrutturali (ad esempio quelli portuali e ferroviari), dallo sviluppo del grande potenziale agricolo e dell’agribusiness (anche, notoriamente, con l’export dei fiori recisi destinati al mercato europeo), da un certo ampliamento dell’industria manifatturiera, dal turismo delle zone costiere e dei parchi, e dalla diversificazione e accelerazione sul fronte dei servizi, come detto, legati all’innovazione tecnologica.

 

La chiave della stabilità politica

Ma il dinamismo economico kenyota è stato probabilmente alimentato anche dall’evoluzione politica del Paese. Sostanzialmente stabile fin dall’indipendenza, il Kenya non ha mai subito un colpo di stato né guerre civili. Dall’inizio degli anni Novanta, e quindi ormai da trent’anni, il Paese tiene regolarmente elezioni competitive. Proprio la vittoria delle opposizioni del 2002 aprì una stagione di riforme economiche e istituzionali ambiziose e destinate ad avviare il rilancio. Ne fa parte anche la Kenya Vision 2030, inaugurata nel 2007 e proseguita poi con piani quinquennali (l’ultimo è del 2017) volti a precisarne periodicamente il focus e stimolarne l’attuazione.

In questo contesto, tuttavia, non sono mancati momenti ed episodi di instabilità, tipicamente legati proprio alle tornate elettorali. Il punto più basso si ebbe con l’elezione di fine 2007-inizio 2008, quando campagna elettorale, voto e relativo conteggio degenerarono in violenze che lasciarono sul terreno oltre mille morti e seicentomila sfollati. Pur in un contesto non egualmente tragico, anche le presidenziali del 2017 portarono a una fase di incertezza, con un’istanza dell’opposizione accolta dalla Corte Suprema e conseguente annullamento – la prima volta in Africa – e ripetizione del voto.

Al centro di tutto sta una presidenza potente, e quindi percepita come “irrinunciabile” da parte di comunità, gruppi etnici e regioni che la considerano la via maestra per poter beneficiare di una distribuzione privilegiata delle risorse pubbliche. L’elettorato kenyota vota in buona parte in base alle diverse appartenenze etniche. E seppure la costituzione riconosca ben 111 gruppi etnici, a fare la partita sono i cosiddetti “Big Five”, ovvero i Kikuyu (22% della popolazione circa), i Kamba (10%), i Luo (11%), i Luhya (14%) e Kalenjin (13%). Dal momento che non c’è un gruppo maggioritario, la strada verso il voto è un’occasione per cucire, snodare e rinegoziare alleanze etniche potenzialmente vincenti: un frequente rimescolamento di carte da cui deriva anche l’assenza di partiti stabili nel tempo.

 

Verso le elezioni: rischio di una scossa?

E così torniamo dunque al contesto e al percorso che porteranno alle elezioni di quest’estate. Negli anni seguiti alla rielezione di Kenyatta del 2017, infatti, si è assistito a qualcosa di interamente imprevisto. Un anno dopo l’elezione, il presidente ha “fatto pace” con il suo storico avversario e leader dell’opposizione Raila Odinga – un passaggio noto come the handshake, la stretta di mano – coinvolgendolo informalmente nel governo e preparandosi di fatto ad appoggiarlo in queste prossime elezioni. Il tutto a danno dell’attuale vicepresidente William Ruto, che ha fatto da scudiero per dieci anni, in attesa del suo turno, per vedersi poi profilare il rischio che la presidenza gli venga scippata all’ultimo metro. In un clima di massima incertezza, dunque, l’elezione vedrà scontrarsi Ruto (un kalenjin) e Odinga (un luo), con Kenyatta (un kikuyu, il gruppo storicamente identificato con l’establishment) che, in uscita, ha spostato tutto il suo potere e il suo peso dal primo al secondo. Oltre al ruolo non trascurabile che giocheranno le altre comunità e il voto ‘indipendente’, tuttavia, non è affatto chiaro quanto l’attuale presidente sarà effettivamente in grado di trascinare con sé l’elettorato kikuyu, parte del quale sembra incline ad appoggiare Ruto.

Sulla base delle esperienze passate – e anche dell’assunto che in molti vogliano evitare di affondare una barca che sta marciando a una buona andatura – è realistico aspettarsi che il Kenya e la sua economia siano in grado di assorbire la scossa elettorale che si profila. Ma la scossa verosimilmente ci sarà, e c’è dunque da auspicare che non sia né troppo violenta né troppo lunga.

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