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Focus

Kosovo: cade il governo in piena crisi coronavirus, e geopolitica

Giorgio Fruscione
26 marzo 2020

Il governo kosovaro di Albin Kurti è durato appena un mese e mezzo. In piena crisi epidemica, nella sera del 25 marzo il parlamento di Pristina ha votato la sfiducia mettendo fine all'alleanza che aveva dato vita a un esecutivo pieno di aspettative e novità. Centrale è stato il ruolo del presidente Hashim Thaci, responsabile della crisi in osservanza di quelle che sembrano direttive provenienti da Washington, che spinge per un accordo con la Serbia.
 

La crisi e il coronavirus

Il governo oggi dimissionario era nato 4 mesi dopo le elezioni che avevano sancito la vittoria di Vetevendosje (Autodeterminazione), nazionalisti di sinistra, e Lega Democratica del Kosovo (LDK), di centro-destra. Dopo mesi di stallo e trattative a vuoto, i due partiti avevano trovato un accordo per l'alleanza. Il 3 febbraio nasceva quindi il governo di Albin Kurti, uno strappo rispetto alle precedenti esperienze, e una speranza per il futuro: primo esecutivo guidato da un premier di sinistra e retto da un'alleanza estranea ai quadri dell'UCK, l'esercito di liberazione che combatté contro la Serbia e a cui appartenevano tutti i leader del precedente esecutivo. Ma in questo mese e mezzo è successo molto a livello politico e diplomatico e nel frattempo la pandemia si è allargata anche ai Balcani.

Il 18 marzo il premier Kurti aveva chiesto le dimissioni del ministro dell'Interno Agim Veliu, in quota LDK, per il suo sostegno alla richiesta del presidente Thaci di dichiarare lo stato di emergenza per l'avanzare in Kosovo del coronavirus. Il contagio per ora ha colpito 71 persone, uccidendone una, ma premier e presidente si sono scontrati sulla gestione della crisi sanitaria, generando un conflitto di competenze. Mentre Kurti si adoperava per introdurre il modello di molti paesi europei applicando restrizioni per contenere il contagio, Thaci le bollava come incostituzionali, invitando i cittadini a non rispettare i coprifuoco. Il presidente ha quindi proposto lo stato d'emergenza, avocando a sé competenze proprie del governo, dando in realtà sfogo alla sua intolleranza verso il leader di Vetevendosje, da sempre avversario politico del presidente.

L'impossibile coabitazione tra presidente e premier si inserisce in un contesto delicato per il Kosovo – riconosciuto a livello internazionale da poco più di 100 stati – e sebbene la crisi sia nata e sfociata a livello interno, questa ha origini lontane e sembra diretta emanazione della diplomazia statunitense, tornata prepotentemente nella regione balcanica.
 

Pressioni a stelle e strisce

Il governo Kurti era nato con un piano fondamentale per la politica estera di Pristina: riprendere il dialogo con Belgrado dopo lo stop di un oltre un anno voluto dal precedente esecutivo di Ramush Haradinaj. L'ex primo ministro aveva introdotto dazi doganali del 100% sulle merci dalla Serbia (e dalla Bosnia-Erzegovina) dopo il blocco diplomatico di Belgrado sull'ingresso del Kosovo nell'INTERPOL.

Il 20 marzo, Kurti, facendo fede alla sua promessa di rilanciare il dialogo mediato dall'Unione Europea, aveva eliminato i dazi sulle materie prime, promettendone la totale rimozione il prossimo primo aprile, e chiedendo il principio di reciprocità con la Serbia. Ed è qui che è intervenuta la longa manus statunitense.

La Casa Bianca negli scorsi mesi aveva nominato l'ambasciatore USA in Germania Richard Grenell, diplomatico molto vicino al presidente Donald Trump, in qualità di inviato speciale per il dialogo tra Belgrado e Pristina. Una carica del tutto nuova che dimostra il rinnovato interesse americano a farsi da pacieri anche nei Balcani. E a Grenell – che nei mesi scorsi aveva anche agevolato un accordo per la futura ripresa dei collegamenti aerei e ferrovieri tra le due capitali – la rimozione graduale dei dazi non è piaciuta affatto, riconfermando anche l'intransigenza verso il principio di reciprocità voluto da Kurti. Un'intransigenza apparentemente immotivata, ma che funge da alibi perfetto per scatenare la crisi di governo. Il presidente Thaci e gli alleati della LDK si sono subito schierati con gli Stati Uniti, padrini dell'indipendenza di Pristina e con cui non vogliono compromettere l'alleanza internazionale. E nei piani USA, quindi, la rimozione dei dazi deve essere totale e immediata.

Ma perché tanta fretta se fino all'anno scorso gli USA erano rimasti sostanzialmente disimpegnati dalle questioni balcaniche? La risoluzione della questione del Kosovo è sì un interesse strategico di seconda (o terza) fascia, ma la Casa Bianca preme per risolvere la questione in virtù delle elezioni presidenziali del prossimo novembre. Dopo il cosiddetto “Piano del Secolo”, archiviare anche la pratica balcanica permetterebbe a Trump di presentarsi al mondo come l'uomo della provvidenza in grado di risolvere situazioni conflittuali che durano da decenni.

Non a caso, nel discorso che ha preceduto la sfiducia al governo, il premier Kurti ha apertamente accusato il presidente Thaci di aver già siglato un accordo in segreto col suo omologo serbo Aleksandar Vucic. I due si erano incontrati in modo informale nelle scorse settimane proprio a Washington. Nonostante entrambi abbiano negato alla stampa di aver sottoscritto alcun accordo, secondo alcune fonti diplomatiche il principale indiziato è il famigerato scambio di territori tra i due paesi di cui si parla informalmente dall'estate 2018: la Valle di Preshevo nel sud della Serbia a maggioranza albanese andrebbe a Pristina, in cambio del nord del Kosovo, abitato in maggioranza da serbi. Questo sarebbe l'incentivo che porterebbe Belgrado a riconoscere l'indipendenza della sua ormai ex provincia, in cui sorgono molti monasteri della Chiesa Ortodossa Serba, che godrebbero di una sorta di autonomia.
 

Competizione geopolitica e incerti scenari futuri

Quella statunitense sarebbe una rinnovata ingerenza non solo a livello regionale, ma anche internazionale. Il dialogo, nonostante il congelamento di un anno, era infatti competenza esclusiva dell'Unione Europea, che dal 2013 media il processo di normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina sancito dagli accordi di Bruxelles. L'intromissione e la fretta degli USA generano quindi una competizione geopolitica in una regione già in equilibrio precario, quanto a sicurezza e stabilità.

La risposta dell'UE non è tardata. L'alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell ha proposto di nominare un suo speciale inviato per il dialogo: Miroslav Lajcak, già ministro degli Esteri slovacco e con un passato da diplomatico di alto rango nei Balcani. Una nomina che lascia però molti dubbi. Lajcak è un diplomatico di uno dei 5 paesi UE, la Slovacchia, che non riconoscono l'indipendenza del Kosovo. Una caratteristica che lo accomuna a Borrell stesso, che viene dalla Spagna, e che suscita perplessità a Pristina. Lajcak ha un dossier particolare nella regione e in molti lo accusano di avere simpatie filo-serbe. La sua nomina rientra dunque piuttosto nella logica di competizione contro Washington, che spinge per un accordo tra i presidenti serbo e kosovaro prima di novembre, e sostituirsi quindi a Bruxelles nella geopolitica del suo vicinato.

La competizione nei Balcani tra USA e UE, per quanto non apertamente riconosciuta, apre scenari incerti soprattutto per il Kosovo. La crisi e la caduta del governo rappresentano una grave mancanza di responsabilità da parte delle istituzioni in gioco. Una posizione condivisa anche dall'europarlamentare Viola Von Cramon, rapporteur per il Kosovo, che ha parlato di grave irresponsabilità, facendo eco a quei paesi UE che chiedevano di rinviare la mozione di sfiducia affinché il governo potesse gestire l'emergenza coronavirus. Un'irresponsabilità che si riflette nella seduta stessa del parlamento che ha votato la sfiducia: i 120 deputati sono stati chiusi nell'emiciclo dodici ore. E l'epidemia rende ora impossibile il ritorno al voto. Il presidente Thaci dovrà chiedere nuovamente a Kurti di formare un altro governo, ma nessuna alleanza sembra possibile. La palla passerebbe quindi a LDK, che potrebbe allearsi col partito di Thaci: sarebbe un ritorno al passato rispetto alle speranze appena assaggiate dal governo dimissionario. Una “restaurazione” sfrontata persino davanti all'avanzare della pandemia e su cui pesa l'aggravante delle interferenze straniere.

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AUTORI

Giorgio Fruscione
ISPI Research Fellow

Questo Focus è stato pubblicato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. 

Le opinioni espresse dagli autori sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dell'ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

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