Il referendum indipendentista voluto da Ma'sud Barzani si è rivelato un pericoloso fuoco di paglia, che ha risvegliato i demoni del passato. Invece di risolvere i problemi del Kurdistan iracheno, li ha esacerbati; sono riemerse le faide interne, le difficoltà economiche, i limiti di una governance clientelare e corrotta e la ostilità di tutte le potenze regionali. Ed ora il governo federale ne approfitta, mentre il Roj (sole) curdo sembra essere tramontato. Forse, le uniche speranze curde sono la nuova generazione di politici che sta emergendo e la rivalità tra al ‘Abadi e al Maliki.
Il referendum per l’indipendenza: le inaspettate conseguenze di un plebiscito
Konrad Adenauer, primo cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, forse un po’ pessimisticamente disse che “la Storia è la somma totale delle cose che avrebbero potuto essere evitate”.
Con le dovute proporzioni e i debiti distinguo, questa citazione si attaglia perfettamente al referendum consultivo sull’indipendenza tenutosi nel Kurdistan iracheno lo scorso 25 settembre.
A votare “sì” fu oltre il 92% dei votanti, eppure, chiamarlo fiasco è poco; infatti, a sole tre settimane dal voto, con l’avanzata delle forze federali su Kirkuk e le aree contese, il Kurdistan iracheno aveva perso metà del petrolio e un terzo del territorio che controllava al momento del voto[1]. Un vero disastro; vinto Da‘esh dopo anni di guerra, in meno di un mese il Governo regionale curdo (Krg) è stato sconfitto, praticamente senza combattere, dal Governo di Baghdad.
Dunque, le conseguenze del voto sono state ben lontane, se non opposte, a quelle che si aspettava il suo promotore Mas‘ud Barzani, contestato presidente del Krg. Il fatto è che il referendum, in qualche modo, è stato il catalizzatore di una serie di dinamiche che hanno messo in evidenza tutti i limiti politici, economici e militari del Kurdistan iracheno.
Innanzitutto, sul piano regionale, il Kurdistan iracheno si è trovato completamente isolato. Circostanza alquanto insolita ma significativa, Ankara, Baghdad e Teheran, si sono trovate tutte d’accordo nel prevenire possibili colpi di testa indipendentistici curdi. L’Iran ha chiuso le frontiere e mandato truppe al confine, mentre la Turchia ha sospeso i collegamenti aerei e svolto esercitazioni militari con le forze federali. Nel frattempo, il governo iracheno ha stretto il controllo delle frontiere e ammassato truppe verso Kirkuk, oltre a bloccare l’allocazione di fondi del bilancio e gli scambi di valuta estera; anche gli Usa, mentori storici del Kurdistan iracheno, ma incapaci di dissuadere Barzani, hanno subito disconosciuto l’esito del voto[2]. È evidente che Mas ‘ud Barzani ha sovrastimato il valore del Kurdistan iracheno per la Turchia, e ha sottostimato l’opposizione iraniana a un Kurdistan forte.
Senonché, a evitare un possibile scontro tra Erbil e Baghdad è intervenuto l’Iran e, a seguito di un lavorio diplomatico preparatorio intessuto dal generale iraniano Qassem Suleimani[3] , i Peshmerga dell’Unione Patriottica Curda (Puk) hanno consegnato Kirkuk, la “Gerusalemme curda”, alle truppe federali di al ‘Abadi, aiutate dalle milizie sciite. È evidente che le lusinghe iraniane e le minacce irachene hanno convinto il Puk più della kurdiyeti, ovvero l’identità curda in comune col Partito Democratico Curdo (Kdp).
Questo brusco cambio di scenario, inimmaginabile sin di recente, evidenzia un’ulteriore limite del Kurdistan iracheno, ovvero le forti divisioni interne ai movimenti curdi; il solco scavato dalla guerra civile tra Puk e Kdp nel 1994-1997 forse non è ancora stato colmato del tutto. In realtà, c’è di più; come già approfondito[4] , Mas ‘ud Barzani ha indetto il referendum per uscire da un impasse politico e istituzionale, dove Puk e Gorran si opponevano a una sua ulteriore proroga quale presidente del Governo regionale, mentre lui bloccava i lavori parlamentari; il tutto, con una profonda crisi economica che colpiva il Kurdistan. Col referendum Barzani cercò di intestarsi il nazionalismo curdo, guadagnando legittimazione popolare; infatti, agli occhi dei curdi, in qualche modo il referendum cristallizzava le conquiste fatte con la guerra a Da‘esh. Secondariamente, mentre il Kdp aveva una leadership salda, con la morte rispettivamente di Nawshirwan Mustafa (maggio 2017) e di Jalal Talabani (ottobre 2017), il Gorran e il Puk si trovavano in posizione di debolezza.
Però, anche se le conseguenze del referendum hanno spinto Mas ‘ud Barzani a dimettersi a meno di due settimane dalla perdita di Kirkuk, sarebbe sbagliato darlo per politicamente spacciato.
Innanzitutto ha mantenuto il fermo controllo del Kdp, secondariamente ha già in vista l’occasione di riscatto, ovvero le prossime elezioni presidenziali e parlamentari del Kurdistan iracheno. Inizialmente previste per il primo novembre scorso, furono rinviate a causa delle tensioni a Kirkuk. Ora, il Kdp insiste perché si tengano prima delle elezioni nazionali (ovvero per il parlamento iracheno) del 12 maggio prossimo; il Puk, invece, cerca di spingerle a settembre 2018, forse perché teme di pagare lo scotto elettorale conseguente alla sua ritirata da Kirkuk. Del resto, queste elezioni saranno decisive per il futuro del Kurdistan iracheno; e ciò, in quanto rappresentano la possibilità di uscire dall’impasse politico interno e di riavviare le dinamiche istituzionali. Inoltre, si spera possano esprimere una leadership più condivisa, capace di affrontare le impegnative future trattative con Baghdad. Divisi e litigiosi in patria, comunque i politici curdi si sono dimostrati uniti, boicottando la sessione parlamentare del 3 marzo scorso dove è stato approvato il bilancio per il 2018; infatti, il testo approvato prevede per il Kurdistan una riduzione delle allocazioni di bilancio federale dal 17% al 12,7%. Così ora i partiti curdi minacciano di uscire in blocco dal governo e boicottare le elezioni nazionali del 12 maggio prossimo.
La frammentata classe politica curda, tra nuove generazioni e retaggi del passato
Peraltro, le vicende delle elezioni presidenziali e parlamentari curde si intrecciano fortemente con quelle nazionali irachene, e il posizionamento dei partiti curdi in vista del voto del 12 maggio sta delineando il futuro panorama politico nel Kurdistan iracheno. Puk e Kdp correranno separati, anzi il partito di Barzani ha annunciato che, a differenza degli altri partiti curdi, boicotterà le elezioni nella provincia di Kirkuk. Poi c’è una coalizione, la Nishtiman (Patria), che comprende il Gorran, il partito islamista Komal e una nuova forza, la “Coalizione per la Democrazia e la Giustizia”, nata nel settembre 2017 da una scissione dal Puk. Dunque, lo scenario che sembra delinearsi è quello di una competizione tra il Kdp, un blocco di opposizione e il Puk.
In realtà, le differenze ideologiche tra i diversi movimenti sono alquanto limitate, essendo tutti in predominanza laici ed etno-nazionalisti; del resto, tutti condividono il sogno indipendentista. La vera differenza è sulle modalità di gestione del potere. Sino a quando il Krg è stato dominato dal duopolio Kdp-Puk, la sfida non era ideologica né effettivamente regolata nelle sedi istituzionali, ma si svolgeva tramite reti clientelari, in gara per l’accesso alle risorse. Si trattava di una governance dove non c’era competizione di idee ma di personalità, e dove più che il voto contava l’uso della forza e la cooptazione tribale e clientelare. Senonché, incarnando un diffuso sentimento nella popolazione e approfittando di un periodo di relativa stabilità in Kurdistan, nel 2009 si è affermato un partito anticasta, il Gorran. Il suo successo è stato il sintomo di un profondo mutamento che si stava verificando nella società curda, dove stavano emergendo spinte di modernismo e rinnovamento. Tuttavia, di lì a poco, l’arrivo di una minaccia esistenziale come Da‘esh ha polarizzato il quadro politico.
Oggi però, e questo è un passaggio chiave per comprendere l’attuale situazione in Kurdistan iracheno, le spinte di cambiamento stanno dando vita a una crescente dinamica di contrapposizione, sia politica sia sociale, che è quella generazionale. Anche se molto sfumata, la linea di confine consiste nella differente visione tra chi ha vissuto appieno i tempi della dittatura ba‘athista, e coloro che sono diventati adulti negli ultimi quindici anni; i primi hanno un’attitudine più difensiva verso il nazionalismo arabo e diffidente verso le altre forze curde. I più giovani, invece, sono più aperti, più influenzati dalla globalizzazione e in molti casi hanno avuto modo di viaggiare, fare impresa e integrarsi meglio con la modernità e la comunità internazionale. Per loro, l’Iraq arabo più che un nemico è paradossalmente lontano e ben poco interessante, a causa del suo perpetuo stato di crisi. Questa crescente differenziazione nella società curda, si rispecchia in una strisciante contrapposizione tra due generazioni di politici; da un lato ci sono i “combattenti della vecchia guardia”, ovvero i reduci delle guerre contro Saddam, che vestono la tradizionale rank w choxa[5], mentre dall’altro ci sono i “costruttori”, in giacca e cravatta, ovvero coloro che si sono politicamente affermati durante gli anni del prodigioso sviluppo successivo alla caduta del regime ba‘athista. Da un lato il nazionalismo della kurdiyeti, dall’altro il pragmatismo. I primi governano con accordi di spartizione delle risorse, sulla base di rapporti di forza, sfruttando i partiti come paravento; del resto il governo e le istituzioni sono stati sfruttati per decenni dai leader Puk e Kdp come veicolo per controllare potere e risorse. I “costruttori”, invece, non hanno dalla loro il peso di un carisma o un’eredità storica, ma per guadagnarsi legittimità promettono sviluppo economico.
Oggi però la crisi economica del Kurdistan iracheno[6], la corruzione, il crollo dei prezzi del petrolio, la dipendenza finanziaria da Baghdad e politica da Ankara, oltre alle divisioni interne e un sistema politico fondato sul clientelismo, hanno reso insostenibile il modello di amministrazione dell’ultimo decennio. Nel 2016 la Banca Mondiale ha pubblicato un report[7] dove si evidenzia l’urgente necessità di profonde modifiche del sistema economico, mentre nel dicembre del 2017, in città come Sulaimaniya, Ranya, Halabja e Koya, ci sono state diffuse manifestazioni popolari che chiedevano un cambio di passo delle riforme.
Naturalmente, la differenza di stile di governo tra “vecchia guardia” e giovani rampanti non è affatto netta e, anzi, è spesso incerta, complici i vincoli di parentela; ciò che però è incontestabile è il fatto che si è affacciata al potere una nuova generazione di politici. Basta pensare all’attuale primo ministro Nechirvan Barzani, 51 anni e nipote di Mas‘ud Barzani, e al vice-primo ministro Qubad Talabani, 40 anni e figlio di Jalal Talabani; politicamente giovani, ma entrambi figli d’arte.
In altri termini, le infelici conseguenze del referendum e la gravità della situazione in Kurdistan hanno aperto lo spazio per una nuova classe di politici, ma rimane tutto da vedere se avranno la volontà e la forza di cambiare le regole del gioco. Nechirvan Barzani, in particolare, è una figura chiave potendo rappresentare il successore del politico più forte, lo zio Mas‘ud, che guida il partito più forte, il Kdp[8]. Tiepido se non contrario al referendum, al suo attivo Nechirvan ha il fatto di essere stato capo del “governo dello sviluppo” tra il 2006 e il 2009, oltre che primo ministro dal 2012. Rimane però da vedere se avrà modo di riformare sia il partito sia il paese. Qubad Talabani è invece una figura meno rilevante, in quanto dietro le quinte politiche la leadership del Puk è saldamente nelle mani di sua madre, la volitiva Hero Ibrahim Ahmad, vedova di Jalal Talabani. Tra i giovani emergenti c’è poi il figlio maggiore di Jalal Talabani, Bafel (45 anni), considerato un abile negoziatore e riformatore del Puk.
In ogni caso, con la fine di Da‘esh e l’ulteriore acuirsi della crisi economica[9], complice la perdita dei redditizi giacimenti di Kirkuk, la popolazione chiederà rinnovamento e trasparenza. Nel frattempo, alle prossime elezioni regionali, molti curdi non accetteranno che Nichervan Barzani e Qubad Talabani semplicemente perpetuino le rispettive dinastie.
A raccogliere i frutti del dissenso verso Kdp e Puk, probabilmente sarà Barham Salih (57 anni), un navigato politico che comunque rappresenta una forza di rinnovamento. Salih è stato primo ministro del Krg in quota Puk dal 2009 al 2012 e, in precedenza dal 2006 al 2009, vice primo ministro del governo iracheno nonché ministro della Pianificazione; nel settembre 2017 ha lasciato il Puk e fondato la “Coalizione per la Democrazia e la Giustizia”. Considerato che la morte di figure come Jalal Talabani e Nawshirwan Mustafa hanno privato rispettivamente il Puk e il Gorran di leader chiave, Salih ha buone chance di ottenere largo supporto e modificare gli equilibri politici e ciò, anche considerata l’alleanza con altri partiti esclusi dal duopolio Puk-Kdp, come il Gorran e l’islamista Komal. A evidenziare la sua differenza dalla “vecchia guardia”, Salih non ha una milizia Peshmerga e non ha il controllo di rilevanti risorse economiche; pertanto, anche in caso di vittoria elettorale, in molti si chiedono come possa effettivamente governare.
Del resto, i Peshmerga rimangono uno strumento di potere sia per il Puk sia per il Kdp, in quanto garantiscono loro la supremazia su politica e istituzioni, oltre a costituire il veicolo col quale i politici distribuiscono risorse in cambio di appoggio[10] ; pertanto, al fine di proteggere il legame di affiliazione, i due movimenti non fanno confluire tutte le loro milizie[11] nelle forze armate del paese[12]. Infatti, solo durante la guerra a Da‘esh e dietro pressione Usa, le brigate sotto controllo del Krg sono state rafforzate, sebbene rimangano sempre politicizzate e sotto un controllo congiunto Kpd-Puk. La questione di fondo è che se i Peshmerga rimangono divisi su lealtà politiche, anche il paese rimarrà diviso. E oggi, considerato il peggioramento dei rapporti politici ed economici con Baghdad, l’unificazione delle milizie Peshmerga è vitale. Infine, è paradossale il caso del Puk, che ha il controllo di forti milizie Peshmerga, ma ha indubbiamente perso il largo consenso elettorale che godeva un tempo.
In ogni caso, a calmare gli entusiasmi di chi spera in un cambio radicale di leadership e di stile di governo, c’è una serie di considerazioni. Innanzitutto, è improbabile che nuovi leader come Nichirvan Barzani e Qubad Talabani andranno contro gli interessi familistici della rete di clan che li appoggiano; secondariamente, è ben difficile che politici come Salih ottengano significativo supporto nei feudi Kdp di Erbil e Dohuk; infine, per chiunque sarà estremamente difficile sfidare Mas‘ud Barzani alla presidenza. Di contro, è possibile che dopo 25 anni il duopolio Kdp-Puk si stia allentando, soprattutto grazie all’emergere di una coalizione all’opposizione, che sta politicamente indebolendo in particolare il Puk.
Baghdad-Erbil: come ricomporre la frattura?
Al contempo, l’avvicinarsi delle elezioni nazionali non facilita certo un riavvicinamento tra Baghdad ed Erbil. La campagna elettorale spinge il governo iracheno verso posizioni massimaliste, oltre che a rinviare ogni trattativa a dopo il voto. Del resto, proprio sulla situazione in Kurdistan stanno speculando i due principali candidati alla carica di primo ministro iracheno, Haider al ‘Abadi e Nouri al Maliki. L’attuale premier ha assunto una posizione molto dura, chiedendo come precondizioni al negoziato col Krg l’annullamento dell’esito del referendum e la consegna al governo federale dei passaggi di confine e alcune aree disputate; inoltre, al ‘Abadi sta cercando di negoziare con società straniere alcuni contratti di sfruttamento dei giacimenti petroliferi presenti nelle aree disputate con Erbil[13], evitando ogni coinvolgimento del governo curdo[14]. Dunque l’attuale primo ministro, facendo leva sulla vittoria militare contro Da‘esh e politica sui curdi, cerca di accattivarsi il voto sia dei nazionalisti arabi sia degli sciiti iracheni, mentre cerca di minare la posizione di al Maliki e del suo entourage con la lotta alla corruzione.
Dal canto suo, al Maliki pare stia cercando un riavvicinamento con Barzani e, richiamando al rispetto della Costituzione in merito al problema delle aree disputate, con un atteggiamento opposto a quello che tenne quale primo ministro ha invece fatto delle aperture verso il Krg; di fatto, le tensioni tra i curdi e il premier al ‘Abadi hanno aperto uno spazio di manovra politica per al Maliki, in cerca di alleati.
In realtà i curdi, se uniti, potrebbero rappresentare i veri “kingmaker” delle prossime elezioni nazionali; infatti, il quadro politico attuale è caratterizzato da un’estrema frammentazione, anche tra le fila sciite; dunque, l’appoggio curdo farebbe la differenza per incoronare il prossimo primo ministro sciita[15].
Il rapporto con Baghdad dovrà dunque essere ricucito, anche perché le ritorsioni finanziarie poste in essere da al ‘Abadi all’indomani del referendum, poi unite alla perdita dei proventi petroliferi di Kirkuk[16], hanno dimostrato l’estrema fragilità economica del Kurdistan iracheno; di fatto è alla mercé di Baghdad, per l’allocazione di fondi di bilancio, e di Ankara, per l’esportazione del petrolio indipendentemente dal governo federale. Non è un caso che tutti i gruppi parlamentari curdi stiano boicottando le sessioni di approvazione del bilancio e minaccino di boicottare anche le prossime elezioni nazionali.
Di contro, le dimissioni di Mas‘ud Barzani dopo 12 anni di presidenza, hanno fornito un’opportunità per recuperare le relazioni con la Turchia. In realtà Ankara non vuole perdere un prezioso alleato-satellite e l’apparente atteggiamento aggressivo di Erdoğan[17] si spiega anche con esigenze di politica interna, considerata la sensibilità dell’elettorato turco alla questione curda in vista delle prossime elezioni del 2019. Di converso, la lezione appresa dal Krg col referendum dello scorso settembre è quella che, in futuro, il riconoscimento turco di un’eventuale indipendenza curda irachena sarà cruciale, se non determinante. Intanto, senza l’appoggio turco il Krg ha perso la possibilità di operare indipendentemente dal centrale iracheno; il fatto è che Erdoğan vuole un Krg umiliato, ma ancora strettamente legato ad Ankara da un punto di vista politico ed economico. In ogni caso, è possibile che in futuro la Turchia tenga il Krg sotto scacco, migliorando i propri rapporti con il governo iracheno.
Chi è nella posizione migliore per mediare tra la parte curda e quella araba, sono certamente gli Stati Uniti. Il Kurdistan iracheno è una entità tenuta a battesimo da Washington, mentre al ‘Abadi e la sua svolta nazionalista hanno avuto successo grazie all’investimento politico e militare americano. Il punto di partenza per un dialogo sarebbe la costituzione, ma purtroppo l’Iraq più che dallo stato di diritto è retto dai rapporti di forza; inoltre la costituzione è spesso volutamente vaga, in modo da evitare tensioni su punti controversi, e rimandare a ipotetici successivi accordi politici; senonché, questo margine per il dialogo in realtà è diventato terreno di scontro. In altri termini, è il più forte a stabilire cosa sia costituzionale o meno, e in questo momento, dopo esser stato sotto scacco per anni, ad avere il sopravvento è il governo federale. Non a caso, la richiesta curda di attuare le previsioni costituzionali per risolvere la questione dei territori disputati o Disputed Internally Boundaries (Dib), è stata seccamente rifiutata dal governo federale.
Per la precisione, la soluzione costituzionalmente prevista sarebbe l’attuazione dell’art. 140, che prevede un censimento ed un referendum popolare sul futuro delle Dib. Peraltro, questa norma è rimasta congelata per oltre dieci anni, e attuarla oggi sarebbe molto rischioso, considerando gli sconvolgimenti causati dalla guerra Da‘esh e lo stato di tensione attuale. Un’altra soluzione, complementare, è rappresentata dalla Corte Suprema Federale, deputata a interpretare la costituzione e verificare la costituzionalità delle leggi; però la Corte è un’istituzione molto contestata[18], essendo da un lato accusata di esser priva di un pieno mandato, e dall’altro di essere fortemente politicizzata.
Quali scenari per il futuro?
In conclusione, il passo falso del referendum ha messo una pesante ipoteca su ogni prossimo futuro progetto indipendentista, peggiorato i rapporti con tutti i vicini e condotto alla perdita di aree strategicamente rilevanti. Inoltre, ha messo in evidenza le divisioni interne tra le forze curde oltre che la debolezza politica ed economica del Kurdistan iracheno.
Però, questa crisi ha anche aperto una finestra di opportunità per un rinnovamento; le prossime elezioni nazionali saranno infatti l’occasione per reinserire i curdi nelle dinamiche politiche federali, mentre le elezioni regionali curde saranno l’occasione per riorganizzare i partiti, trovare unità e fiducia nelle istituzioni del Krg ma, soprattutto, per un ricambio generazionale. Il problema è che, dopo oltre 25 anni di duopolio Puk e Kdp sul governo regionale, difficilmente la “vecchia guardia” cederà il potere, e rimane dubbio quanto questi partiti potranno evolversi al loro interno.
Per capire se il paese si sta avviando verso la strada giusta, bisognerà vedere se la nuova generazione di politici riuscirà effettivamente a governare, tagliando i ponti col personalismo e il clientelismo del passato. A riguardo, i dubbi sono molti, quanto le speranze di larga parte della popolazione.
Il primo passo sarà superare le divisioni interne, e formare un fronte unico nei rapporti col governo federale. Secondariamente, la riforma delle istituzioni passa attraverso un’effettiva e completa unificazione delle unità Peshmerga, de-politicizzandoli e ponendoli sotto il controllo governativo.
Sul piano regionale, per la stabilizzazione politica e lo sviluppo economico della regione curda è essenziale ricucire i rapporti con Baghdad e Ankara; senonché, il rischio è che se il governo federale iracheno insiste sulla linea dura, a prevalere nel fronte interno curdo siano nuovamente “i combattenti” e non certo “i costruttori”. L’altro rischio è che gli Stati Uniti non riescano a negoziare un riavvicinamento tra le diverse fazioni curde, complice l’opposizione di Teheran, e tra queste e il governo federale complice la reciproca atavica ostinazione. Per inciso, qualora la situazione economica interna e le relazioni con Baghdad non migliorassero, le chance che Mas‘ud Barzani riesca a instaurare una sorta di democrazia presidenziale su misura per lui, sono alte; e invece, il modo migliore per il Krg di ottenere l’appoggio della comunità internazionale per la causa curda è quello di diventare una vera democrazia, modello per la regione.
Il prezzo che il Kurdistan iracheno potrebbe pagare è quello di un’implosione politico-economica o addirittura di una guerra civile; intanto, di fronte a un Krg debole e diviso, a Baghdad potrebbe venire la tentazione di togliergli i privilegi costituzionali e rafforzare la dipendenza dal governo centrale, con il rischio di un conflitto arabo curdo, con tutte le implicazioni regionali del caso.
Note
1. A seguito dell’offensiva contro Da’esh, i Peshmerga avevano conquistato tutta l’area a nord di Mosul e l’area a ovest di Kirkuk, spostando la linea del fronte curdo in territorio iracheno in una strisca che lambiva le aree e gli abitati di Sinjar, Tell Afar, Makhmur e Hawijah
2. M. Salim, K. DeYoung and T. El-Ghobashy , “Tillerson says Kurdish independence referendum is illegitimate”, The Washington Post, 29 settembre 2017.
3. Comandante della “Brigata Quds”, guarda caso era a far visita alla tomba di Jalal Talabani a Sulaymaniya (feudo del PUK) proprio il giorno prima dell’offensiva di al ‘Abadi su Kirkuk, http://www.kurdistan24.net/en/news/c81f7fc5-baea-46a4-9549-5c161674c87a
4. G. Parigi, “Le ambizioni di Barzani in un fragile Kurdistan Iracheno”, ISPI Commentary, 22 settembre 2017.
5. Pantaloni larghi, blusa e fascia-cintura
6. Il paese ha un debito di circa 18 miliardi di dollari, e con la perdita di Kirkuk gli introiti si sono drasticamente ridotti; con delle riserve di circa due miliardi di dollari e una spesa mensile di circa 700 milioni di dollari per pagare i salari, senza significativi stanziamenti dal governo federale, il KRG è destinato alla bancarotta.
7. The World Bank, The Kurdistan region of Iraq - Reforming the economy for shared prosperity and protecting the vulnerable, Documents&Reports, vol. 2, 30 maggio 2016.
8. Tra i giovani, all’interno del KDP gli si contrappone Masrour Barzani, figlio maggiore di Mas‘ud, a capo del Consiglio di Sicurezza Curdo.
9. B. Goran, “Kurdistan Parliament passes sweeping payroll reform bill”, Kurdistan24, 28 February 2018.
10. Negli anni, il numero dei Peshmerga è cresciuto a dismisura e il 17% del bilancio nazionale è destinato alla difesa.
11. In particolare, il Kdp e il Pdk mantengono rispettivamente il controllo delle brigate “ Yakay 80” e “ Yakay 70”; peraltro, si tratta di unità che godono di privilegi economici e logistici che invece non sono garantiti alle Regional Guard Brigades dei Peshmerga, nonostante rappresentino la compagine di sicurezza istituzionale.
12. Il Krg conta 14 brigate su 45.000 uomini e un comando unificato; poi ci sono le milizie di Kdp e Puk, che raggiungono un totale di 150.000 uomini
13. Ad esempio, Baghdad sta cercando di stringere i rapporti con Rofsnet, che oltre ad avere in corso rilevanti contratti in Kurdistan, ha in proprietà il 60% della pipeline Kikruk-Ceyhan. Con British Petroleum sta invece negoziando un aumento della produzione in alcuni giacimenti di Kirkuk.
14. Rimane poi da chiarire lo status del giacimento di Khurmala, a nord-ovest di Kirkuk, che il Krg controlla e ritiene situato in territorio curdo; Baghdad, invece, lo vuole occupare in quanto lo considera come territorio disputato.
15. I curdi controllano circa 62 dei 328 seggi del Parlamento nazionale iracheno.
16. Un mese dopo il referendum, la produzione curda di petrolio è passata da circa 600.00 a 250.000 barili al giorno.
17. Il valico doganale di Fish Khabur, il cui controllo è rivendicato da Baghdad, è ancora nelle mani turco-curde, mentre le esportazioni di petrolio verso la Turchia sono in corso.
18. “Iraqi Judiciary Hanging in the Balance”, Fanack, 18 gennaio 2017.