Fino a qualche settimana fa, il fatto che si potesse parlare di “country to watch” per il Kurdistan, sembrava un’evenienza non troppo lontana. E, a ben guardare, non appariva tanto come una provocazione, quanto come una prospettiva reale. Il leader politico del Governo regionale curdo (Kurdish Regional Government, Krg) Massoud Barzani rilasciava interviste dichiarando che avrebbe presto indetto un referendum per l’indipendenza del Kurdistan; i militari curdi, i cosiddetti peshmerga, erano il punto di riferimento della comunità internazionale, che li ha sostenuti militarmente ed economicamente, nella lotta contro lo Stato Islamico (IS); lo stesso Kurdistan iracheno era di fatto l’unica area dell’Iraq che potesse definirsi – pur con tutte le riserve del caso – stabile. È per questo che, all’alba del 2015, ci poniamo ancora l’interrogativo se il Kurdistan sarà presto un nuovo “country” da trattare come tale. Lo stesso governo italiano, del resto, appoggiando quasi incondizionatamente i curdi in funzione anti-Califfato, ha contribuito nel suo piccolo a creare quelle aspettative tali da far considerare realistica l’ipotesi di uno Stato curdo. Ciò potrebbe essere reso possibile dall’acquisizione di credibilità – e, in qualche modo addirittura di credito – dei curdi di fronte alle cancellerie di tutto il mondo, qualora effettivamente grazie al loro sforzo e al loro ruolo di attori con i “boots on the ground”, la minaccia del sedicente Califfato di al-Baghdadi dovesse essere sconfitta. In questo modo ci troveremmo non solo con un Kurdistan legittimato da un punto di vista politico da tale azione, ma allo stesso tempo anche meglio equipaggiato dal punto di vista militare, per poter finalmente realizzare il sogno che, dalla fine della Prima Guerra Mondiale in poi, gli è sempre stato negato: la costituzione di un proprio Stato indipendente. Tale eventualità, del resto, ha provocato i dubbi e le perplessità di molti circa le conseguenze di lungo termine che l’attuale appoggio ai curdi potrebbero avere, fino alla fatidica domanda: il Kurdistan, potrebbe divenire un problema, dopo essere stato la soluzione?
In realtà, tanti nodi sarebbero ancora da sciogliere prima che si possa parlare dell’eventualità di uno Stato curdo, così come tante precisazioni sono necessarie per inquadrare la questione nella maniera corretta. Prima di tutto: di che Kurdistan si sta parlando? È quasi superfluo ricordare che il Kurdistan presenta un fattore che più di altri ne ha caratterizzato l’evoluzione nella sua storia: la divisione e la frammentarietà. Geografica e politica. Quando oggi si parla di un possibile Kurdistan indipendente, ci si riferisce al solo Kurdistan iracheno, che tra l’altro è di fatto già un’entità politica con ampi margini di autonomia rispetto al governo centrale di Baghdad. Ma il Kurdistan storico si espande nel Sud-Est della Turchia (dove vivono 20 milioni di curdi), nel Nord-Est della Siria (dove i curdi stanno sperimentando, nel contesto della guerra civile siriana, un altro modello di autonomia, indipendentemente dal Kurdistan iracheno) e infine nell’Iran. Cosa accadrebbe di questi altri Kurdistan? Sicuramente né la Turchia né l’Iran potranno tollerare il distaccamento di proprie porzioni di territorio per la formazione di un Kurdistan indipendente. Ciò fa presupporre che l’unico Kurdistan indipendente potrebbe essere, appunto, quello iracheno.
E poi vi sono le divisioni politiche. I curdi hanno perso il treno per l’indipendenza tra il 1916 e il 1923, proprio (anche) a causa delle proprie divisioni interne e dell’incapacità di raggiungere un consenso su chi dovesse essere il rappresentante unico di tutta la nazione. Ma la storia si ripete: negli anni Novanta, le due anime politiche-tribali che oggi costituiscono il KRG, vale a dire il KDP (Kurdish Democratic Party) di Barzani e il Puk (Patriotic Union of Kurdistan) dell’ex presidente iracheno Jalal Talabani, hanno combattuto una sanguinosa guerra civile per il controllo politico di quell’area, dimostrando che l’interesse particolare (avere il controllo del Kurdistan iracheno), prevale su quello generale (lottare insieme per una causa curda comune). Le stesse tensioni stanno riemergendo anche ora. Chi ci dice che, nel medio-lungo periodo, tali fazioni non torneranno a combattersi per l’egemonia politica del Kurdistan iracheno? Del resto, tale fattore ci porta a un’altra problematica pratica che interessa il Kurdistan: la divisione tra le stesse armate peshmerga, più attente a rispondere a logiche di partito, che alla causa nazionale. Ciò vuol dire che il cosiddetto esercito curdo è di fatto diviso in due e il Puk e il Kdp hanno le loro rispettive unità armate, che riflettono la divisione politica. Quale futuro per un “Paese” che presenta tali contraddizioni già alla base?
Accanto a questi due fattori di natura interna, ne esistono altri di natura esterna, che condizionano l’evoluzione politica del Kurdistan. Prima di tutto la comunità internazionale. Appoggiare i miliziani curdi in chiave anti-IS, non si traduce – e probabilmente non si tradurrà ancora per tempo – in un sostegno politico alla causa “nazionalistica” curda. È verosimile che, una volta raggiunto (se mai venisse raggiunto) l’obiettivo contingente di sradicare l’IS dalla Siria e dall’Iraq, gli attori internazionali torneranno a mostrarsi molto più cauti nei confronti della questione curda, relegandola nuovamente a un affare regionale. E qui intervengono, appunto, gli attori locali. Nessuno, tranne forse Israele, ha interesse nel vedere la nascita di uno Stato curdo. Non ha interesse la Turchia, che da decenni combatte l’irredentismo curdo; non ha interesse l’Iraq, che vedrebbe sfuggirgli di mano una buona parte della propria ricchezza del sottosuolo; non hanno interesse le monarchie del Golfo, impaurite da possibili destabilizzazioni politiche e dalla presenza di un nuovo attore che si presenta molto più “laico” di qualsiasi altro Paese dell’area (la tradizione politica curda di ideologia filo-socialista ha spesso attirato le inimicizie degli islamisti più radicali).
Un passo verso la distensione è stato compiuto proprio a inizio dicembre scorso, quando il governo iracheno e quello di Erbil (capitale del Krg) hanno finalmente firmato uno storico accordo che regola la maggiore fonte di contenzioso tra di due: il petrolio. Baghdad aveva smesso di trasferire a Erbil parte dei proventi petroliferi già da qualche mese, provocando una crisi di bilancio del Kurdistan iracheno, che a sua volta aveva cominciato a esportare il petrolio presente nel proprio territorio autonomamente. Ma ciò era reso difficile dall’ostracismo di Baghdad e dall’indisponibilità di molti potenziali acquirenti e società energetiche a cooperare, per paura di ritorsioni da parte dello stesso governo iracheno. Con il nuovo accordo, il Kurdistan iracheno trasferirà 550.000 barili di petrolio al giorno a Baghdad (circa un sesto di tutta la produzione irachena) e, in cambio, avrà indietro quella quota sul budget nazionale del 17% che le era stata tolta. Con ciò potrà tornare a pagare anche i salari dei propri dipendenti e degli stessi peshmerga, che in più dovrebbero ricevere da Baghdad un miliardo di dollari per provvedere all’acquisto di nuovi equipaggiamenti. È questa la chiave di volta della questione curda? Per il momento sì, anche in virtù del nemico comune che curdi e governo centrale stanno combattendo, cioè al-Baghdadi. Ma l’IS è destinato a rappresentare solo un fattore congiunturale della politica mediorientale e irachena, mentre il Kurdistan è un fattore strutturale che rimarrà anche in futuro. E, come ricordato, non c’è solo quello iracheno. E c’è da scommettere che sarà nuovamente una “crisis to watch”, prima di diventare un “country to watch”.