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Commentary

La caduta del “Chapo”: una svolta nella guerra al narcotraffico?

26 febbraio 2014

Il dettaglio è significativo. Tre giorni prima della cattura del latitante più ricercato al mondo – almeno dopo la morte di Osama Bin Laden nel 2011 –, il presidente Barack Obama si trovava in Messico per partecipare al cosiddetto vertice dei tre Stati dell’America Latina. Prima d’iniziare la serie di colloqui privati con l’omologo e padrone di casa Enrique Peña Nieto, il capo della Casa Bianca ha affermato: «gli Stati Uniti continuano l’impegno per ridurre la domanda di droga, il traffico illegale di armi e di soldi». Il narcotraffico non era ufficialmente in agenda, non ce n’era necessità: la questione è sempre presente quando s’incontrano il rappresentante del maggior consumatore mondiale e quello del maggior fornitore di stupefacenti. Meno di 72 ore più tardi un alto funzionario da Washington ha fatto filtrare in forma anonima all’agenzia Associated Press la notizia dell’arresto di Joaquín “El Chapo” Guzmán, il più potente dei signori della droga. Sulla sua testa pendeva una taglia da cinque milioni di dollari. Il che rende solo in parte giustizia al calibro del criminale fermato. El Chapo era molto più del capo di Sinaloa, una multinazionale del crimine ramificata in 56 paesi, Italia inclusa. Guzmán era l’icona stessa del “Messico ai tempi della narco-guerra”: un conflitto che ha ucciso oltre 100.000 persone negli ultimi sette anni. A creare il macabro mito del Chapo è stata sicuramente la fuga rocambolesca dal carcere di Puente Grande, nel Jalisco, dove è stato detenuto per otto anni. Fin quando, nel 2001, il rischio di venire estradato negli Stati Uniti non l’ha fatto optare per l’evasione. Il suo nome, però, si è impresso nella coscienza collettiva del paese in seguito. Ed esattamente da quando, nel gennaio 2007, l’ex presidente Felipe Calderón ha deciso di scatenare l’offensiva militare contro un narco profondamente radicato nelle istituzioni e nell’economia messicane. Il risultato è stato una spirale incontrollata di violenza. I cartelli del crimine hanno reagito all’attacco, moltiplicando la potenza di fuoco contro le autorità e intensificando la lotta con i rivali. In questo contesto si è forgiata la leggenda del Chapo: l’uomo che è riuscito ad approfittare di questa caotica situazione per far fuori, uno dopo l’altro, gli avversari. Mentre la lista delle vittime, in buona parte civili, si allungava a dismisura, il leader di Sinaloa dilatava il suo potere, allargando i suoi tentacoli per un’area molto più vasta dell’originario Nord-Ovest. Merito della ferocia del “plomo” (piombo) ma anche dell’impiego oculato della “plata” (soldi): Guzmán preferiva insinuarsi nelle istituzioni piuttosto che sfidarle. Vari analisti non hanno mancato di evidenziare come la strategia di Calderón abbia favorito l’ascesa del Chapo, per sottovalutazione del problema o – come dicono tanti – grazie a oscuri legami tra la banda e alcune istituzioni. Forse, sostengono altri, il governo ha puntato su Sinaloa perché lo considerava l’unico in grado di poter ristabilire la perduta “pax mafiosa”: per decenni, grazie allo strapotere del Partito Revolucionario Institucional (Pri), al comando per 71 anni, le organizzazioni criminali sono state tenute, in qualche modo, sotto controllo.

In ogni caso, ora, El Chapo sembrava essere molto vicino dal vincere la guerra con i rivali. Il cartello aveva conquistato le “plazas” della Baja California, Sonora, Durango, Sinaloa e Chihuahua, dimostrazione di ciò anche il relativo calo di omicidi nelle turbolente Tijuana e Ciudad Juárez. Perché colui che Chicago aveva dichiarato il nemico pubblico numero uno è caduto proprio adesso? È stato solo un passo falso di un boss troppo sicuro di sé o sono stati gli Usa a esigere la testa di un boss oltremodo ingombrante? O, ancora, è stato lo stesso Guzmán a farsi prendere per ridurre la pressione delle autorità sulla sua organizzazione e permettere agli affari di continuare? O forse El Chapo si sentiva minacciato: i suoi più stretti collaboratori – El Mayo Zambada e Juan José Esparragoza detto “El Azul” ¬– volevano farlo fuori per sostituirlo. E allora ha patteggiato con Peña Nieto, popolare all’estero quanto contestato a Città del Messico per aver fallito nel frenare la violenza? 

Ognuna di queste domande nasconde probabilmente un frammento di verità. E soprattutto implica un altro interrogativo: che cosa accadrà ora? Per quanto l’arresto del boss dei boss sia importante, questo non metterà fine alla narcoguerra. El Chapo era da tempo più simbolo che capo operativo. Sinaloa – e questo è uno dei suoi punti di forza – è strutturato come un franchising: altri sottogruppi si affiliano e pagano la relativa quota per avere il “marchio”. Il centro dà le linee guida, ma i singoli “pezzi” li declinano come meglio credono. Oltretutto la gestione operativa delle “macro-politiche” erano ormai affidate al Mayo e al Azul, mentre El Chapo tratteggiava lo scenario più generale. Ciò non significa che l’uscita di scena di Guzmán – sempre che questo esca realmente di scena e non continui a dar ordini dal carcere come faceva a Puente Grande – non abbia ricadute. Gli avversari – primi fra tutti Los Zetas – potrebbero voler approfittare della difficoltà del nemico per attaccarlo. Nel breve e medio periodo, potrebbe dunque verificarsi una nuova impennata di violenze. All’interno del cartello, poi, potrebbero aprirsi faide per la successione. Senza contare il fatto che qualche affiliato potrebbe decidere di “rinegoziare” – a suon di Ak47 – le regole di appartenenza. Il rischio di frammentazione di Sinaloa è concreto. E questo complicherebbe ulteriormente il narco-puzzle messicano. Oltretutto, la caduta del Chapo potrebbe complicare ulteriormente la situazione di Michoacán e Guerrero, già allo stremo. Qui il cartello di Jalisco-Nueva Generación si contende la regione con i Caballeros Templarios. Il primo è alleato di Sinaloa: quale miglior momento per metterlo all’angolo?

Le variabili sono molte e complesse. Finora, però, in Messico l’arresto dei boss non ha messo fine alla guerra. Eppure la strategia dei governi – precedente e attuale – continua a concentrarsi su spettacolari azioni di polizia. E sulle catture “eccellenti”. Poco o niente viene fatto per smantellare la struttura finanziaria, logistica ed economica che consente alle multinazionali del crimine di muovere 40 miliardi solo con il traffico di droga. Denaro con cui i narcos corrompono polizie, magistrati, interi apparati pubblici. È questo sistema miliardario e ramificato a creare i Chapo. E a sostituirli, al momento opportuno. 

Lucia Capuzzi, giornalista, lavora nella redazione Esteri di Avvenire. 

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