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Commentary

La caduta di Mosul nelle mani dell’ISIS: verso il ritorno dell’emirato islamico radicale in Iraq?

Andrea Plebani
11 giugno 2014

Ancora una volta l’Iraq è tornato a occupare le prime pagine dei giornali. Non per l’esito controverso e pieno di incognite delle elezioni legislative del 30 aprile e per le conseguenze che la fragile affermazione del primo ministro al-Maliki potrebbe avere sul paese, ma per l’ennesima ondata di violenza che minaccia ancora una volta l’integrità e la coerenza stessa del “nuovo Iraq”. Eppure i segni della crisi erano evidenti e tutt’altro che imprevedibili per chi avesse voluto coglierli. Da oltre due anni le principali province a maggioranza sunnita del paese sono oggetto di proteste che hanno immobilizzato buona parte dell’Iraq occidentale e acuito il divario con un esecutivo percepito come chiaramente anti-sunnita. Un esecutivo che, a onor del vero, poco aveva fatto per confutare tali accuse, come dimostrato dalle migliaia di arresti comminati dalle autorità, dall’uso del pugno di ferro in molteplici occasioni (esempio più significativo, in tal senso, è stato il massacro di Hawija, costato la vita a oltre 200 vittime tra manifestanti e forze di sicurezza) e dal targeting quasi sistematico di esponenti arabo-sunniti di primo piano, iniziato nel dicembre 2011 – a pochi giorni dal ritiro delle forze americane – con il mandato di cattura emesso contro l’allora vice-presidente Tariq al-Hashimi, proseguito un anno dopo con le accuse mosse contro l’ex ministro delle Finanze Rafi al-Issawi e ripresentatosi nuovamente a fine 2013 con l’arresto di Ahmed al-Alwani.  

Questa frattura ha permesso allo Stato Islamico dell’Iraq (a partire dalla primavera 2013 Stato Islamico dell’Iraq e della Siria - ISIS) di trovare terreno fertile per le proprie attività e di far ritorno in forza nel paese, dal quale era stato parzialmente estromesso alla fine di un lungo scontro “terminato” nel 2008[1]. Perché, al di là dei proclami e della voglia di credere nella sconfitta della compagine islamista radicale, l’ISI/ISIS aveva mantenuto profonde radici nel nord-ovest dell’Iraq, e in particolare nella provincia di Niniveh e nella sua città principale, Mosul, che già nel 2009 era considerata il principale santuario del movimento[2]. Una presenza, quella del Daesh[3], tutt’altro che celata al pubblico o agli occhi delle autorità. Certo, il movimento aveva limitato le proprie operazioni militari, ma aveva mantenuto un capillare controllo su interi settori della città e del suo hinterland, ricorrendo al racket, alla gestione di traffici illeciti, a rapimenti e all’uso indiscriminato della violenza soprattutto nei confronti delle minoranze locali (cristiani, yazidi e shabak su tutti). Da queste basi l’ISIS aveva potuto attendere il momento propizio per tornare in forze nel resto del paese e sostenere il proprio progetto di dar vita ad un emirato islamico a cavallo tra Levante e Mesopotamia.

A partire dalla seconda metà del 2012, l’ISI ha quindi lanciato una nuova campagna volta a rafforzare la propria presa sul sistema iracheno, ricorrendo ad attacchi esplosivi coordinati (divenuti il principale marchio di fabbrica del movimento) e alla liberazione di centinaia di detenuti in custodia presso alcuni dei principali centri penitenziari del paese[4]. Tali attività si sono rivelate fondamentali per la ripresa su ampia scala delle operazioni in Iraq e per il “saltò di qualità” fatto registrare dalla formazione alla  fine del 2013. Sfruttando la profondità strategica garantita dalla sua presenza nel teatro siriano, l’opposizione della popolazione locale al governo centrale e le rinnovate capacità operative di cui poteva disporre, il movimento lanciò un’offensiva che, nel giro di poche settimane, portò all’estromissione delle forze di sicurezza da alcune delle principali città del governatorato di al-Anbar, (Ramadi e Falluja su tutte), per poi estendersi ai governatorati di Salahaddin e Diyala e puntare poi con decisione su una cintura di villaggi dislocati a nord della capitale[5].

La caduta di ieri di Mosul in mano degli insorti si inserisce quindi in un contesto di sicurezza pesantemente deteriorato, che minaccia di aggravarsi ulteriormente con il passare delle ore. Il capoluogo della regione, infatti, costituisce uno snodo fondamentale per i traffici iracheni verso la Siria e la Turchia, ma – soprattutto – detiene un peso politico, economico e di sicurezza di estrema importanza. Mosul è, infatti, la seconda città del paese e il suo governatore, Atheel  al-Nujaifi, è fratello di Osama al-Nujaifi - leader del principale partito arabo sunnita iracheno e uno dei principali oppositori del primo ministro al-Maliki. Non è un caso, quindi, che al-Nujaifi abbia mosso pensatissime critiche nei confronti delle forze armate (alcuni reparti delle quali, secondo diversi resoconti, avrebbero abbandonato il campo prima che venisse ordinata la ritirata), ma soprattutto alla gestione della crisi da parte del premier, che proprio ieri ha chiesto al parlamento di approvare lo stato d’emergenza – decisione tutt’altro che scevra da implicazioni politiche di primissimo piano[6]. La città settentrionale è, inoltre, sede di uno dei più importanti corpi d’arma del paese e si teme che la sua caduta possa beneficiare il Daesh non solo in termini di visibilità, ma anche in relazione alle dotazioni militari abbandonate dai reparti  in fuga dalla città, che potrebbero costituire un moltiplicatore di capacità significativo sia in chiave irachena che in chiave siriana. Mosul, inoltre, è posta in prossimità della regione autonoma curda e delle aree contese che contrappongono ormai da più di dieci anni Baghdad ed Erbil[7].

Tutte queste considerazione si innestano all’interno di una situazione pesantemente segnata da una crisi umanitaria che si fa di ora in ora sempre più pressante. Centinaia di migliaia di persone  sono infatti in fuga dalla città e dalle aree circostanti verso i campi organizzati in prossimità dell’Iraq centrale e, soprattutto, del vicino (e sinora stabile) Kurdistan iracheno, presidiato dai peshmerga inquadrati nella guardia regionale.

I prossimi giorni saranno quindi cruciali per il paese. Se l’ISIS dovesse puntare a sud, Baghdad stessa rischierebbe di finire sotto attacco. Qualora, invece, gli insorti dovessero prediligere la direttrice orientale, Kirkuk diverrebbe l’obiettivo principale – e con essa le ingenti risorse petrolifere dell’area. Un’eventualità che né al-Maliki né i suoi principali oppositori possono anche solo prendere in considerazione. In un caso o nell’altro, come dichiarato dal portavoce del Dipartimento di Stato americano, Jen Psaki, l’ISIS costituisce una minaccia per la stabilità dell’intera regione, e non solo di Siria o Iraq. Una minaccia che proviene non da gruppi di irregolari indisciplinati e privi di capacità operative adeguate, ma da formazioni che hanno più volte messo in scacco forze regolari dotate, almeno sulla carta, di strumenti e capacità ben superiori.

1. Si veda Riccardo Redaelli – Andrea Plebani, L’Iraq contemporaneo, Carocci, 2013.

2. Andrea Plebani, Ninawa province: al-Qaʹida remaining stronghold, CTC Sentinel, 31:1, gennaio 2010
3. Altro termine col quale l’ISIS viene designato nella regione.
4. Andrea Plebani, al-Qaeda in Iraq: back again?, ISPI Commentary, 30 luglio 2013.
5. Jessica Lewis, The Islamic State of Iraq returns to Diyala, Middle East Security Report, n. 18, Institute for the Study of War, aprile 2014. Si veda anche Andrea Beccaro, Nuove e vecchie direttrici della conflittualità irachena, ISPI Commentary, 28 aprile 2014.
6. Lo stato di emergenza garantirebbe all’esecutivo ampi poteri e, secondo i suoi detrattori, permetterebbe ad al-Maliki di uscire dall’attuale impasse politica e di riaffermare la propria posizione in seno al sistema iracheno.
7. Le “aree contese” sono territori (principalmente situati nei governatorati di Niniveh, Salahaddin, Diyala, Tamim e Wasit) il cui controllo è rivendicato dal governo federale iracheno e del governo regionale curdo. La costituzione irachena prevede una serie di misure volte a risolvere queste dispute, ma – sino ad ora – esse non sono state ancora implementate. Tali aree sono particolarmente rilevanti sia a causa del loro complesso profilo etno-confessionale, sia in virtù della loro importanza geopolitica e della loro prossimità a importanti giacimenti di idrocarburi.  Si vedano a tal proposito Peter Bartu, Wrestling with the integrity of a nation: the disputed internal boundaries in Iraq, International Affairs, 86:6, 2010 e Sean Kane, Iraq's disputed territories. A view of the political horizon and implications for U.S. policy, United States Institute of Peace Peaceworks, 69, 2011.

Andrea Plebani, ISPI Research Fellow e docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore. 

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Autori

Andrea Plebani
Associate Research Fellow

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