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Commentary

La carestia in Sud Sudan: la storia si ripete?

Sara de Simone
06 marzo 2017

Il 20 febbraio 2017 è diventato ufficiale: in Sud Sudan c'è una carestia. Secondo il comunicato emanato dal governo sud sudanese insieme alla FAO, al World Food Programme e all’UNICEF, circa 100.000 persone stanno morendo di fame in alcune aree dello stato di Unity, situato nel nord del paese e particolarmente colpito dai combattimenti che da dicembre 2013 vedono contrapporsi l'esercito governativo, i ribelli dell'SPLM/A-In-Opposition (SPLM/A-IO) e varie altre milizie sparse sul territorio. Le tre agenzie dell'ONU hanno anche dichiarato che almeno un milione di persone sono prossime ad essere dichiarate in stato di carestia, che circa il 40% della popolazione sud sudanese ha bisogno di aiuti alimentari e di assistenza nella produzione agricola, e che in mancanza di una reazione tempestiva il numero delle persone colpite potrebbe superare i 5 milioni alla fine della stagione secca. 

Che la popolazione in Sud Sudan versi in uno stato di crisi quasi costante, colpita da enormi difficoltà nell'accesso al cibo e ai servizi di base a causa della guerra civile e di un'inflazione galoppante (circa l'800% all'anno) che ha provocato un aumento incontrollato dei prezzi dei generi alimentari, è cosa nota già da tempo. Tuttavia, la dichiarazione dello stato di carestia, il primo a livello globale da sei anni a questa parte, ha una valenza particolare e richiama l'attenzione della comunità internazionale in modo particolarmente forte. 

Prima di tutto, che cos'è una carestia? Per gli addetti ai lavori del settore umanitario, la carestia è definita tecnicamente quando il livello di insicurezza alimentare raggiunge alcuni valori soglia che indicano che si è passati al quinto livello nella Integrated Food Security Phase Classification (IPC), una scala di insicurezza alimentare creata nel 2004 dalla FAO per dare coerenza e uniformità ai metodi di classificazione delle catastrofi umanitarie e indirizzare le risorse disponibili in modo coerente. Perché venga dichiarata una carestia, è necessario che alcune condizioni precise si verifichino: almeno il 20% delle famiglie in un’area subiscono scarsità di cibo con una capacità di reazione molto limitata; i tassi di malnutrizione acuta superano il 30%; il tasso di mortalità supera le due persone al giorno su 10.000. La dichiarazione di carestia non comporta nessun obbligo vincolante per le agenzie ONU o i governi donatori, ma serve ad attirare l’attenzione internazionale sul problema. Anche se da più parti si invoca a gran voce la creazione (e l'utilizzo) di sistemi di early warning e l'impegno tempestivo dei grandi donatori nei contesti in cui si assiste a un deterioramento della sicurezza alimentare, la dichiarazione di carestia ha storicamente funzionato nel mobilitare aiuti umanitari. In Somalia nel 2011, ad esempio, aveva provocato una reazione consistente da parte della comunità internazionale, che aveva in quell'occasione anche sperimentato modalità innovative di impiego degli aiuti, passando dai tradizionali invii di alimenti ai trasferimenti di denaro contante in sostegno alle famiglie, abbattendo così i costi di trasporto e migliorando l'accesso a zone che sarebbero state difficilmente raggiungibili da mezzi di trasporto via terra. 

Al di là dei tecnicismi, il termine carestia porta con sé anche un peso politico notevole. Richiama alla mente il disastro umanitario del 1984 in Etiopia con il suo bilancio approssimativo di 400.000 morti, e in genere i governi, che sono gli attori che dovrebbero dichiarare la carestia nel proprio paese, non lo usano con leggerezza né con facilità. In alcuni casi, come ad esempio in Niger nel 2005, addirittura si rifiutano utilizzarlo, perché riconoscere una carestia significa anche riconoscere un fallimento nella governance.

Il governo del Sud Sudan invece l'ha dichiarata senza grandi resistenze, e anzi sottolineando insieme alle tre agenzie ONU che nella vicina regione del Bahr el Ghazal gli aiuti umanitari avrebbero sensibilmente alleviato la crisi alimentare per la popolazione locale. Come mai?

Quella dichiarata a febbraio 2017 non è la prima carestia che si abbatte sulla regione sud sudanese. Nel 1988 una carestia devastante colpì proprio il Bahr el Ghazal. Secondo il rapporto dell'ONG African Rights, si stima che, all’epoca, la mortalità abbia raggiunto picchi dell'1% al giorno sulla popolazione totale dei campi profughi, mentre il numero totale di vittime si attestò attorno alle 250.000. Una situazione così disastrosa era stata causata dalla sistematica distruzione di villaggi e risorse produttive da parte di milizie finanziate dal governo sudanese, ma anche dal fatto che sia l'esercito governativo che l'allora movimento ribelle Sudan People's Liberation Movement/Army (SPLM/A) utilizzavano la fame come arma di guerra, cercando di tagliare i canali di approvvigionamento dell'avversario. La carestia del 1988 portò al lancio della più grande operazione umanitaria coordinata dalle Nazioni Unite mai messa in campo: Operation Lifeline Sudan (OLS). Al di là delle sue dimensioni (intese sia come quantità di fondi che come organizzazioni aderenti) e della sua durata (più di 10 anni), la sua vera novità era il coinvolgimento del movimento ribelle nella negoziazione dell'accesso umanitario alle aree colpite dalla carestia, aprendo uno spazio che altrimenti sarebbe stato molto ridotto. Anche se l’operazione portò indubbiamente benefici notevoli alla popolazione in quella che venne definita una “vittoria pragmatica” della comunità internazionale, OLS fu anche aspramente criticata per non aver saputo evitare la diversione e la “cattura” degli aiuti da parte degli attori del conflitto. African Rights e Human Rights Watch hanno documentato e più volte denunciato l'utilizzo degli aiuti alimentari come arma di guerra da entrambe le parti, pratica che si intensificò dopo la scissione del movimento ribelle in una fazione principale guidata da John Garang e quella guidata da Riek Machar. Manipolando i flussi di profughi che si riversavano nell’Upper Nile dai campi in Etiopia dopo la caduta di Mengistu Hailè Mariàm, quest'ultimo riuscì ad indirizzare gli aiuti dell’OLS esattamente dove voleva, utilizzandoli per il sostentamento delle sue truppe e lasciando morire di fame, ad esempio, migliaia di uduk (una popolazione originaria della zona di confine tra Sudan ed Etiopia e che costituisce parte dei profughi) costretti a restare in un campo vicino a Nasir come esca per la comunità internazionale. 

Se questa diversione quasi sistematica degli aiuti umanitari, e in particolare di quelli alimentari, non è passata inosservata agli occhi della comunità internazionale, le iniziative per cercare di porre un limite al fenomeno non hanno riscosso grande successo. Le pratiche di appropriazione, furto e tassazione degli aiuti sono proseguite per tutta la durata di OLS, fino ad arrivare, nel 1998, ad un'altra carestia sempre nella stessa regione del Bahr el Ghazal. In quella occasione, la carestia era stata dichiarata dall’SPLM/A, che ne attribuiva le cause a un “fallimento della governance” locale, di cui il movimento si assumeva parzialmente la responsabilità, mentre accusava il governo di Khartoum di non essersi mai curato di governare adeguatamente i territori del sud e di continuare a colpire la popolazione civile durante il conflitto. La dichiarazione di carestia venne legata esplicitamente ad un appello affinché i donatori intervenissero subito e sostenessero la capacità di governo dell’SPLM/A in modo da evitare fallimenti del genere in futuro.

La situazione di oggi è in parte diversa. La risposta alle carestie a livello globale è cambiata: come accennato, non prevede più solo l'invio di aiuti alimentari, ma anche l’impiego di voucher o di denaro liquido da spendere sui mercati locali. Ancora più importante, la comunità internazionale ha scelto di non sostenere il movimento ribelle dell’SPLM/A-IO e di collaborare col governo del Sud Sudan nella risposta umanitaria alla crisi. Risposta umanitaria che fino a questo momento aveva ricevuto un successo piuttosto limitato, se si pensa che, ad esempio, le Nazioni Unite avevano lanciato un appello per 1,3 miliardi di dollari a gennaio 2016 per soccorrere 5 milioni di sud sudanesi colpiti dal conflitto ricevendo una risposta pari solo al 5% di quella cifra. La dichiarazione dello stato di carestia va dunque chiaramente nella direzione di mobilitare quantità maggiori di risorse che possano garantire una risposta adeguata alla crisi umanitaria nel paese, come era già successo in Somalia nel 2011. Se alcune organizzazioni internazionali (Commissione Europea, USAID) hanno già risposto positivamente all'appello stanziando fondi straordinari per il 2017, restano però alcuni problemi di fondo di natura sia pratica che politica. 

A livello pratico, persiste una forte limitazione dell'accesso umanitario alle zone colpite dalla carestia, che sono anche quelle che vedono una presenza maggiore del movimento ribelle. Gli spostamenti via terra e lo stoccaggio di generi alimentari sono problematici in parte a causa della mancanza di infrastrutture adeguate, e in parte a causa degli attacchi verificatisi a più riprese alle strutture e al personale umanitario sia da parte dei ribelli che da parte di un esercito governativo che non brilla per disciplina e coordinamento. Di recente, un funzionario ONU protetto dall'anonimato ha dichiarato ad Al Jazeera che il governo impedisce attivamente l’accesso umanitario ad alcune aree del paese. Al di là della veridicità o meno di tali informazioni, rimane comunque il punto più politico della questione: la pretesa neutralità degli aiuti umanitari. In un contesto di conflitto, qualsiasi tipo di aiuto o intervento è passibile di essere "catturato" e strumentalizzato dalle parti, e per questo non può chiamarsi fuori dalla dimensione politica.

Nonostante sia tema di dibattito fin dagli anni '90, la comunità internazionale tende ad ignorare questi moniti, e raramente la discussione affronta questioni spinose come il costo politico dell'aiuto umanitario. Ad esempio, ci si potrebbe chiedere se il mantenimento delle Unità di Protezione dei Civili (PoC) nelle basi della missione ONU, che dal 2013 ospitano oltre 200.000 civili in varie aree del paese, favorisca la rimozione forzata della popolazione dalle zone petrolifere nel nord del paese. In questo modo, si permette sia ai ribelli che al governo di curarsi pochissimo della popolazione civile e di concentrarsi invece sullo sforzo bellico per controllare delle zone chiave dell'economia politica del conflitto. Nel caso del Sud Sudan, ignorare questa dimensione politica nella risposta agli appelli per la carestia può risultare particolarmente problematico: l'SPLM, attuale partito di governo, ha storicamente sostenuto i propri sforzi militari e le esigenze organizzative interne attraverso l'appropriazione di aiuti umanitari destinati alla popolazione civile. In un contesto in cui ha il coltello dalla parte del manico, e in cui il monitoraggio sul terreno rimane molto complicato, è verosimile che continui ad utilizzare gli aiuti per premiare la lealtà verso il governo e punire l'opposizione, non solo quella militare ma anche quella politica. 

 

Sara de Simone, Università degli Studi di Napoli L'Orientale/Mani Tese ONG

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Africa profughi carestia Sud Sudan aiuti umanitari
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Autori

Sara de Simone
Università degli Studi di Napoli L'Orientale/Mani Tese ONG

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