Lo scorrere del tempo non è più una garanzia di successo per la Cina. Questa è la novità che traspare unificando i segnali grandi e piccoli che incrinano uno sviluppo oramai entrato nella leggenda per quantità e durata. Sono tanti e contemporanei i disagi che affollano l‘agenda di Pechino. Il più vistoso è l’arretramento della crescita del Pil, nel migliore dei casi orientato verso un soft landing. Una flessione rispetto alle eccezionali performance del passato non è in sé un motivo d’allarme, quanto un riposizionamento su un sentiero meno insidioso e più compatibile. È probabilmente una frenata salutare, una garanzia di stabilità in una situazione internazionale che mostra ancora le ferite della recessione.
Più problematiche appaiono le conseguenze del rallentamento e la composizione della domanda globale. Se la titanica macchina da merci che Pechino ha costruito negli anni dovesse perdere i colpi, quali sarebbero le ripercussioni sull’occupazione, i consumi interni, la stabilità sociale? Se la crisi dell’Occidente dovesse contagiare la Cina, con una flessione delle sue importazioni, sarebbe il paese in grado di farvi fronte con un aumento dei consumi interni? E questi ultimi, possono essere stimolati da incrementi salariali? In altre parole, l’export led growth può essere sostituita da una domestic led growth?
Questa complessità può essere soltanto rappresentata, più difficile è risolverla. Nessuno può più ragionevolmente immaginare che la Cina possa disinteressarsi del mondo, come se fosse una creatura aliena dal ciclo internazionale. Per molto tempo questa percezione è stata sedimentata da una mistura di arroganza e nazionalismi, nei quali si ritrovavano gli elementi meno lungimiranti sia della Cina sia dell’Occidente, in modo particolare gli Stati Uniti. L’esclusione del Dragone dal G8 è stata per lunghi anni un insulto alla storia e all’economia. Ora la Cina non può più nascondersi, né può essere esclusa. Non esiste nessun argomento planetario – dalla crisi all’ambiente, dalla sicurezza alle materie prime – nel quale non sia un attore principale e necessario. Ma l’inclusione della Cina dipende dalla sua forza e questa è in relazione agli scenari globali.
Anche la Cina è esposta ai venti internazionali e come tutti è sottoposta all’andamento del cambio, ai movimenti di capitale, alle decisioni delle multinazionali, ai tassi di interesse. Se questa è la cornice dei prossimi anni, ne consegue che il prossimo leader del paese non potrà essere un semplice continuatore del passato. Il paese ha bisogno di una guida capace di misurarsi nell’agone globale, non soltanto del miglior burocrate del partito. Anche se tardi, e probabilmente contro la sua volontà, la Cina non può eludere il confronto. Per evitare che si trasformi in uno scontro, è chiamata a negoziazioni difficili, dove il bastione della non interferenza non è più una garanzia di successo.
Gli scenari del Mar Cinese meridionale, dei confini tempestosi con l’India, della storica animosità con il Giappone e della questione vitale di Taiwan richiederanno un acume tattico che non potrà misurarsi soltanto con i rapporti di forza. Ugualmente, le questioni interne non possono più essere confinate all’ordine pubblico. La crescita economica non sarà più la valvola di sfogo di ogni dissenso, le migliori condizioni di vita non riusciranno sempre a far evaporare le tensioni. Lo ricordano giornalmente gli scioperi nelle fabbriche, le proteste per le requisizioni forzate della terra, l’insoddisfazione che emerge dai social network.
Il prossimo segretario generale del Pcc, che diventerà presidente della Repubblica e probabilmente capo della Commissione militare, è stato già designato. Si tratta di Xi Jin Pin, già uno dei nove componenti dell’Ufficio Politico. Sarà il successore di Hu Jin Tao, selezionato attraverso un processo decisionale lungo e articolato. Si presenta dunque come un leader frutto della riflessione e della sintesi. Dovrà mediare tra esigenze diverse e talvolta inconciliabili. Conterà su un esecutivo guidato da Li ke Qiang, al quale verosimilmente spetterà la guida del Consiglio di stato. Numero sette dell’Ufficio politico, già primo vice primo ministro, appartiene con Xi alla “quinta generazione” del Pcc. La sua successione a Wen Ja Bao comporterà minori rischi. Li probabilmente continuerà la tradizione dei premier moderatamente riformisti, inclini al cambiamento nella stessa misura in cui il vertice del partito è sensibile alla stabilità e agli assetti internazionali. Dalla nuova compagine che uscirà dal 18° Congresso del Pcc, previsto per l’autunno 2012, si attendono decisioni importanti e soprattutto non più rinviabili. La Cina è, infatti, cresciuta e neanche una leadership dal pedigree impeccabile riuscirà a nasconderne l’ingombro.