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USA 2020

La convention democratica e gli “spregevoli” elettori di Trump

Giovanni Borgognone
21 Agosto 2020

La convention democratica “virtuale” di Milwaukee, nonostante a tratti sia sembrata una versione politica dello spettacolo degli Oscar, ha suscitato giudizi nel complesso molto favorevoli da parte delle più autorevoli testate giornalistiche statunitensi. Con il conforto dei sondaggi che vedono il candidato democratico Joe Biden in vantaggio sul presidente in carica, giornali e televisioni di orientamento democratico hanno generalmente esaltato il significato dell’evento, nel quale i diversi volti del Partito, espressioni delle sue molteplici anime, da Bernie Sanders a Kamala Harris, dai coniugi Clinton agli Obama, si sono uniti in coro contro Donald Trump, evidenziando i suoi fallimenti nella gestione dell’emergenza sanitaria e richiamando gli elettori alla consapevolezza che la democrazia americana è in pericolo di fronte alle inclinazioni autoritarie dell’attuale presidente.

Si è così aperta la fase finale della campagna elettorale, la quale potrebbe però rivelarsi particolarmente insidiosa per i democratici. Il pericolo principale è probabilmente rappresentato, come nel 2016, da un’implicita sottovalutazione dell’avversario, quando Trump fu sostanzialmente considerato troppo impresentabile per essere temibile. Ora una convinzione sempre più diffusa è che lo stato di prostrazione del paese causato dalla pandemia e l’inadeguatezza del presidente siano dati talmente incontrovertibili da dover indurre la maggioranza degli elettori a voltargli le spalle. Tuttavia è opportuno ricordare che la sua “base” è rimasta in realtà salda e costante in questo quadriennio, intorno al 40 percento. Oltretutto per molti di loro gli stessi continui attacchi da parte di esponenti dell’“establishment” sono la migliore prova del fatto che Trump debba essere sostenuto e confermato; alcuni seguono lo scontro politico tra il presidente e i suoi avversari come se non fosse null’altro che una forma di “intrattenimento”, non dissimile da quello che egli già offriva agli spettatori del suo reality show. A tutti costoro si deve poi aggiungere l’elettorato conservatore più tradizionale, per il quale, indipendentemente dal giudizio sulla personalità di Trump, potrebbe alla fine prevalere un’opinione favorevole sulle sue politiche fiscali, commerciali, militari e di contenimento dell’immigrazione. In questo quadro, la scarsa attendibilità spesso dimostrata dai sondaggi dovrebbe suggerire cautela, tenendo conto sia del numero molto elevato di persone che negli ultimi anni si rifiutano di partecipare alle indagini demoscopiche (più del 90 per cento nelle elezioni del 2012 e in quelle del 2016), sia del ben noto fattore di complessità costituito dal sistema americano dei “grandi elettori”.

Vi sono in secondo luogo valide ragioni per le quali i democratici dovrebbero temere le “contromosse” di Trump. La morte di George Floyd, oltre a mettere in luce il perdurante problema dell’arbitraria violenza poliziesca contro le minoranze e a innescare una straordinaria ondata emotiva in tutto il paese (e pure al di là dei suoi confini), ha offerto al presidente l’occasione di fare leva sulle paure di buona parte dell’elettorato moderato, impressionato dai disordini e da proposte, avanzate nell’entusiasmo della mobilitazione di massa, come quella del taglio dei finanziamenti per la polizia. Nel pieno delle proteste, Trump non ha esitato a giustificare le azioni repressive in nome della sicurezza e della difesa della proprietà privata dagli assalti di alcune frange estremiste, ha ripetuto ossessivamente il mantra “law and order” e ha ridotto tutti i manifestanti alla categoria degli “Antifa”, i militanti anarchici che contemplano nelle loro tattiche il ricorso alla violenza, accusandoli altresì di calpestare la storia e la cultura nazionale con la decapitazione delle statue che celebrano personalità della Confederazione sudista. I democratici rischiano così, sia pure sotto il nobile vessillo dell’anti-razzismo e della difesa della dignità delle minoranze, di perdere di vista le aspettative del gruppo identitario maggioritario, vale a dire la classe media bianca, in un quadro politico nel quale peraltro, di fronte all’alta retorica dei diritti, potrebbe rimanere ancora una volta in secondo piano la questione, per molti versi trasversale rispetto alle divisioni etniche e di genere, della lotta contro i grandi privilegi economici e per una redistribuzione delle ricchezze.

Nelle giornate della convention democratica Trump, oltre a continuare a mettere in dubbio le capacità mentali del suo avversario, ha anche avvertito che le elezioni del 2020 saranno una “lotta per la sopravvivenza della nostra nazione e della nostra stessa civiltà”. È chiaro dunque come egli intenda nuovamente incentrare la campagna elettorale, analogamente a quella del 2016, sulle “guerre culturali”, agganciandole in particolare alla questione dell’immigrazione. In tale quadro non ha esitato ad assecondare una teoria cospirativa razzista circolante tre le legioni dei militanti della Alt-Right suoi sostenitori, in base alla quale la senatrice Kamala Harris (di ascendenze indiane e giamaicane) non sarebbe eleggibile alla vicepresidenza, a causa del fatto che i suoi genitori sono immigrati. Si tratta di un’asserzione falsa, ma Trump ha ripreso come in passato, sia pure in forma dubitativa, le insinuazioni nativiste dei nazionalisti bianchi, rivisitando quelle già adoperate contro Obama, a cui fu chiesto di esibire il certificato di nascita sulla base del sospetto che fosse nato in Kenya e non alle Hawaii.

Il presidente ha inoltre sostenuto che le casalinghe di periferia voteranno per lui, di fronte allo spettro dei programmi di lungo corso dei democratici, i quali, per incoraggiare la diversificazione sociale e il multiculturalismo nelle comunità americane, consentirebbero a suo avviso un’“invasione” multietnica dei quartieri bianchi attraverso l’edilizia a basso costo. Trump vuole in generale convincere gli elettori indecisi che il suo rivale Joe Biden, descritto come una sorta di burattino nelle mani della sinistra radicale, sia un sostenitore della totale apertura delle frontiere e che il risultato di una vittoria democratica sarebbe l’ingresso negli Stati Uniti di criminali e di persone infette che metterebbero a rischio la vita degli americani. Tutte le restrizioni all’immigrazione poste in essere dalla sua amministrazione, ha detto Trump, cadrebbero nel caso in cui a novembre prevalesse Biden, il quale inaugurerebbe una fase politica nella quale stranieri con precedenti penali potrebbero tranquillamente girare per il paese, diffondere violenza e rubare i posti di lavoro agli americani. Trump si è spinto pure ad assecondare le farneticazioni cospirazioniste di QAnon, innescate nel 2017 sul bollettino online 4chan da un sedicente alto funzionario dell’intelligence che si firmava Q, il quale sosteneva di avere avuto accesso a informazioni riservate su un’imminente guerra globale condotta dal presidente statunitense per salvare il proprio paese da una cabala di satanisti pedofili e cannibali, connessa con il Partito democratico, con il “deep state” e con alcune celebrità di Hollywood. Su tali basi i militanti di QAnon hanno contribuito, soprattutto a partire dai mesi del lockdown per la pandemia, a diffondere in rete teorie paranoiche, sfruttando hashtag delle più disparate crociate, da quella contro i vaccini a quella contro gli abusi sui bambini. Sono così riusciti ad attirare l’attenzione di milioni di persone, quantomeno con una versione “lite” di QAnon, incentrata sull’idea di un complotto del deep state contro Trump, senza necessariamente chiamare in causa le sette sataniche. Interrogato dai giornalisti, il presidente ha dichiarato di avere sentito dire che si tratta comunque di persone che “amano il loro paese” e ha aggiunto di essere effettivamente pronto a fare tutto ciò che è necessario per far trionfare il bene.

Nella retorica trumpiana riecheggiano dunque il razzismo, la xenofobia, l’antifemminismo e persino il cospirazionismo: tutti quei temi che già contribuirono alla sua vittoria nel 2016 contro Hillary Clinton. Saranno sufficienti questa volta, considerando peraltro che gli elettori potranno basare il loro giudizio sull’esperienza di quattro anni di presidenza? Chiaramente la partita è aperta, ma i democratici commetterebbero un grave errore nel liquidare semplicemente i sostenitori di Trump come un “covo di spregevoli”, secondo l’espressione adoperata dalla candidata alla presidenza nel 2016. L’ex segretario di Stato volle così riferirsi alle relazioni tra il suo rivale e la Alt-Right, ma finì con l’ostentare, agli occhi di molti elettori, anche al di là della cerchia più o meno ristretta degli attivisti della destra estrema, un arrogante ed “elitistico” senso di superiorità, che di certo non giovò al suo risultato finale.

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AUTORI

Giovanni Borgognone
Università di Torino

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