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Focus Mediterraneo allargato n.14
La crescita costante degli Emirati Arabi Uniti
Eleonora Ardemagni
23 settembre 2020

Gli Emirati Arabi Uniti (Eau) formano un nuovo governo federale per reagire agli effetti economico-sociali della pandemia da Covid-19, in attesa dell’Expo di Dubai riprogrammato per il 2021. La digitalizzazione di lavoro e servizi, nonché la razionalizzazione della struttura pubblica, sono di certo i cardini del nuovo esecutivo, chiamato a offrire risposte rapide ed efficaci alle domande inedite della realtà post-coronavirus. Con grandi eventi, mobilità e turismo necessariamente in stand-by, il percorso di consolidamento post-oil degli Eau passa innanzitutto dall’industrializzazione. Al di là delle prime pagine conquistate con il lancio della sonda verso Marte, o l’avvio della centrale nucleare di Barakah, industria della difesa, energia nucleare e aerospaziale rappresentano tre asset del processo di evoluzione economica della federazione. Con risvolti comunicativi da non trascurare: la promozione di un’immagine di eccellenza, innovazione e tolleranza è al centro della strategia di Mohammed bin Zayed al-Nahyan, principe ereditario di Abu Dhabi e vice-comandante delle forze armate degli Eau, di fatto il vero leader degli Emirati Arabi Uniti. Non a caso, ragioni di politica regionale e d’immagine hanno spinto, innanzitutto, gli emiratini a ufficializzare ora la normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele, seguiti poi dal Bahrain. Con uno sguardo al contenimento dell’Iran, ma soprattutto alla competizione intra-sunnita giocata, contro Turchia e Qatar, tra Medio Oriente, Corno d’Africa e Mediterraneo.

 

 

Quadro interno

Il 5 luglio 2020, Mohammed bin Rashid Al Makhtum, primo ministro emiratino nonché vicepresidente degli Eau ed emiro di Dubai, ha proceduto a un rimpasto del governo federale[1]. Infatti, è compito del primo ministro selezionare i membri del governo, che vengono poi approvati dal presidente e dal Consiglio supremo degli Eau[2]. Già nel maggio scorso, Mohammed bin Rashid aveva preannunciato l’intenzione di formare un esecutivo “più agile, flessibile e veloce”, un “Emirates team” capace di affrontare le tante sfide economico-sociali causate da Covid-19[3]. Con l’obiettivo di accelerare il processo decisionale e il recupero dalla pandemia, il primo ministro aveva individuato le principali aree di intervento: salute, educazione, economia, sicurezza alimentare, società e governo. Il governo inaugurato nel luglio scorso avrà un anno per centrare gli obiettivi prefissati, poiché i “cambiamenti costanti” saranno all’ordine del giorno finché gli Eau non raggiungeranno “il miglior modello di governo per la nuova era”, ha affermato il primo ministro Mohammed bin Rashid[4]. Tra le principali novità del rimpasto vi è l’istituzione di un ministero dell’Industria e della Tecnologia avanzata, la creazione del super-ministero dell’Energia e delle Infrastrutture (che raggruppa i precedenti dicasteri di energia e industria nonché quello dello sviluppo infrastrutturale), la compresenza di tre ministri senior al ministero dell’Economia (il titolare dell’Economia, più i nuovi ministri di stato per Business e Piccole-medie imprese, nonché per il Commercio con l’estero). Lavoreranno in unico dicastero anche le ministre di Cultura e Gioventù. Non c’è più il ministro di stato alla Felicità e Qualità della vita, nomina che aveva suscitato molto interesse tra i media internazionali nel 2016: queste deleghe rientrano ora nel ministero dello Sviluppo comunitario, quindi saranno ri-orientate sul piano locale. Viene invece istituito il ruolo di ministro di stato per lo Sviluppo del governo e il futuro. Il ministro di stato per l’Economia digitale e l’Intelligenza artificiale si occuperà anche di elaborare nuove strategie per lo smart working. Il ministro di stato alla Sicurezza alimentare e idrica afferisce ora al ministero degli Affari presidenziali, scelta che evidenzia la centralità del tema per la leadership degli Eau, specie in epoca di chiusura intermittente delle frontiere e di rallentamenti nelle procedure di import marittimo causa coronavirus. In tema di pubblica amministrazione, digitalizzazione e razionalizzazione sono gli obiettivi primari degli emiratini: il 50% dei centri di servizio pubblico sarà digitalizzato entro due anni e il 50% delle autorità federali sarà accorpata o fusa. Infine, la centralizzazione dell’informazione e della comunicazione pubblica è ancora più evidente: l’agenzia di stampa ufficiale Wam afferisce da ora al ministero degli Affari presidenziali e un nuovo Media Office, guidato da Saeed Al Attar e con riporto al governo federale, coprirà la diplomazia pubblica e monitorerà tutte le comunicazioni mediatiche degli Eau, interne e internazionali.

Da un decennio, gli Emirati Arabi Uniti hanno avviato il processo di diversificazione economica post-oil, che riguarda soprattutto l’emirato di Abu Dhabi, primo tra i sette della federazione per giacimenti ed estrazione petrolifera. Un percorso in anticipo su Arabia Saudita, Oman e monarchie vicine: accanto a commercio, servizi, infrastrutture e turismo, l’industrializzazione è così diventata un cardine del percorso emiratino di trasformazione economico-sociale. Industria della difesa, dell’energia nucleare e aerospaziale sono solo i tre volti più eclatanti dell’industrializzazione negli Eau, che hanno permesso alla federazione di conquistare, tra luglio e agosto 2020, le prime pagine dei media internazionali. La compagnia di stato Edge (conglomerato fondato nel 2019 per integrare le imprese commerciali del settore della difesa)[5], ha annunciato l’acquisto del 40% dell’emiratina Ammroc (attiva nel ramo manutenzione), ora detenuta dal colosso statunitense Lockheed Martin e dalla sussidiaria Sikorsky[6]. L’impianto Barakah (“benedizione” in arabo) ha poi iniziato a produrre energia nucleare in uno dei suoi quattro reattori: è la prima volta per un paese arabo. Barakah (situato a Gharbiya, zona ovest dell’emirato di Abu Dhabi), soddisferebbe, a regime, un quarto della domanda elettrica nazionale, riducendo inoltre le emissioni di gas serra. L’impianto è stato sviluppato grazie a un accordo tra la Emirates Nuclear Energy Corporation (Enec) e la Korea Electric Power Corporation (Kepco) della Corea del Sud. A differenza dell’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi hanno ottenuto il “gold standard” per l’energia nucleare. Infatti, gli Eau hanno firmato nel 2009 il “123 Agreement for Peaceful Civilian Nuclear Energy Cooperation” con gli Stati Uniti, in cui la federazione si impegna a non sviluppare tecnologia dual-use (civile e militare), quindi a rinunciare all’arricchimento dell’uranio e al riprocessamento del plutonio, in cambio di assistenza e materiale nucleare da Washington. Abu Dhabi si è quindi vincolata a non sviluppare la bomba atomica: ciò non impedisce, tuttavia, che il traguardo nucleare tagliato dagli emiratini rappresenti, e insieme inciti, una scivolosa corsa agli armamenti, anche non convenzionali, nel Golfo.

L’invio della sonda emiratina Amal (“speranza” in arabo) verso Marte è poi il segno più tangibile dell’“ossessione per i record” che oggi caratterizza gli Emirati Arabi Uniti e, soprattutto, del modo in cui Abu Dhabi guarda alla politica e al ruolo globale della federazione. Amal dovrebbe raggiungere l’orbita del Pianeta Rosso nel febbraio 2021: oltre duecento ingegneri emiratini hanno lavorato, per sei anni, a questo lancio spaziale, quando prima del 2014 non esisteva neppure un’agenzia spaziale negli Eau, presieduta adesso da Sarah al-Amiri, già ministro delle Scienze avanzate. Proprio il cittadino emiratino Hazaa al-Mansoori aveva raggiunto la Stazione spaziale internazionale nel settembre 2019, primo astronauta arabo nella storia. Traguardi come questi gettano luce sul percorso post-oil di industrializzazione, investimenti, ricerca e knowledge transfer (trasferimento delle conoscenze per produrre competenze locali), intrapreso dagli Emirati Arabi nell’ultimo decennio. E contribuiscono a perseguire due obiettivi immateriali: coltivare l’immagine internazionale promossa dalla leadership degli Eau - quella di un paese globalizzato, iper-moderno, efficiente e competitivo - rafforzando, al contempo, il senso di orgoglio, identità e patriottismo di uno stato in cui i nazionali rappresentano una minoranza privilegiata[7].

 

Relazioni esterne

Lo scorso 13 agosto, l’annuncio della normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Emirati Arabi e Israele ha ufficializzato una dinamica di disgelo politico e avvicinamento strategico che monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg) e Israele coltivavano da qualche anno. L’11 settembre 2020 anche il Bahrain ha annunciato la normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele. Questa piccola monarchia a guida sunnita (in un paese in cui gli sciiti rappresentano oltre il 60% della popolazione) dipende dall’Arabia Saudita per finanze, sfruttamento dei giacimenti petroliferi e sicurezza: dato l’allineamento della sua politica estera a quella di Riyadh, tale mossa potrebbe davvero rappresentare l’anticamera dell’intesa formale tra Arabia Saudita e Israele. Secondo il comunicato congiunto tra Israele, Emirati Arabi e Stati Uniti, la normalizzazione delle relazioni bilaterali si affianca alla “sospensione” delle annessioni dei territori palestinesi occupati delineate dal Piano di pace presentato dal presidente statunitense Donald Trump (anche se gli emiratini hanno parlato di “stop” alle annessioni, la cui sospensione sarebbe invece solo “temporanea” secondo il premier israeliano Benjamin Netanyahu)[8]. Dopo l’annuncio della normalizzazione, è stato un crescendo di contatti tra Emirati Arabi Uniti e Israele: l’apertura ufficiale di una linea di comunicazione e l’inizio della cooperazione scientifica anti-Covid, la prima telefonata tra ministri degli Esteri nonché tra ministri della Difesa, la visita del capo del Mossad Yossi Cohen ad Abu Dhabi per un incontro con il consigliere emiratino alla Sicurezza nazionale (nonché fratello di Mohammed bin Zayed al-Nahyan) Tahnoun bin Zayed, colloqui online tra ministri in tema di sicurezza alimentare e idrica, l’abolizione del boicottaggio verso Israele (“Israel Boycott Law” del 1972), infine il primo volo commerciale da Tel Aviv ad Abu Dhabi (31 agosto), con a bordo delegazioni israeliane e statunitensi. In particolare, il volo aereo ha anche lanciato degli impliciti messaggi diplomatici, poiché ha sorvolato per la prima volta il territorio dell’Arabia Saudita, che ne ha autorizzato il passaggio (e autorizzerà il passaggio di tutti i voli da e per gli Eau, quindi inclusi quelli provenienti o diretti in Israele); inoltre, l’aereo ha fatto una rapida deviazione nello spazio aereo dell’Oman prima di entrare negli Emirati. L’agenda del primo incontro bilaterale di Abu Dhabi prevedeva cooperazione economica, scientifica, commerciale e culturale: esclusa, per ora, la spinosa questione della vendita degli F-35 statunitensi agli Emirati Arabi. Al momento, l’unico stato mediorientale a disporre degli F-35 è Israele, che intende di mantenere la consueta superiorità militare (“military edge”) nella regione; Washington ha tuttavia fatto un’apertura, dichiarando che gli emiratini potranno potenziare le proprie capacità militari senza che lo status quo in tema di armamenti venga alterato. Gli Eau apriranno un’ambasciata a Tel Aviv.

Per inquadrare la decisione degli Emirati Arabi di avviare relazioni diplomatiche formali con Israele, due considerazioni possono essere utili: la prima riguarda le motivazioni di questa scelta, la seconda le sue implicazioni per la politica estera emiratina. Infatti, la pace tra emiratini e israeliani (così come per i bahrainiti) è e sarà molto diversa dai precedenti accordi di pace firmati con Israele dall’Egitto (1979) e dalla Giordania (1994). Come dichiarato dal ministro degli Esteri degli Eau Anwar Gargash, questa potrà essere una “warm peace”[9] (“una pace tiepida, cordiale”): infatti gli Emirati, a differenza dell’Egitto e della Giordania, non hanno mai combattuto direttamente Israele e non hanno confini in comune con lo stato israeliano. La giovane federazione emiratina, geograficamente assai lontana dai tormenti bellici del Levante, è nata nel 1971, ovvero due anni prima della quarta e ultima guerra arabo-israeliana (1973), quando anche Shaykh Zayed di Abu Dhabi protestò sospendendo le forniture di petrolio agli Stati Uniti, nel quadro dell’embargo petrolifero capeggiato dall’Arabia Saudita. Insomma, tra Emirati Arabi e Israele si ufficializza una pace senza pathos, poiché non complicata e resa amara dalle memorie di guerra. Ed è proprio questo il punto: Abu Dhabi non guarda alla questione arabo-israeliana (dunque, nello specifico, anche a quella israelo-palestinese) con gli occhi della storia, ma con gli occhi della strategia. Infatti, osservando la politica estera degli Eau, la pace con Israele è un mezzo e non il fine: un mezzo per rafforzare il proprio ruolo politico regionale, nonché l’immagine internazionale della federazione.

A proposito di immagine, non è un caso che la normalizzazione dei rapporti con Israele segua di un anno l’invito e la visita di Papa Francesco ad Abu Dhabi (febbraio 2019), nonché l’annuncio dell’apertura della prima sinagoga negli Emirati Arabi, prevista nel 2022 nella capitale emiratina, come parte di un complesso religioso che ospiterà anche una chiesa e una moschea. Tolleranza verso altre fedi e diplomazia culturale sono infatti tra i vettori più efficaci della politica estera degli Eau[10]. Da una prospettiva più strettamente geopolitica, l’accordo con Israele permette agli Emirati Arabi di rafforzarsi politicamente in tre partite fondamentali: 1) il contenimento dell’Iran, 2) la lotta ai movimenti della Fratellanza Musulmana e 3) lo scontro energetico e d’influenza nel Mediterraneo orientale. Rispetto a Teheran, l’atteggiamento di Abu Dhabi è difensivo, non offensivo (e ciò contraddistingue gli emiratini dall’Arabia Saudita): gli Emirati Arabi temono le ricadute, anche in termini di sicurezza marittima ed export, di un eventuale conflitto regionale che coinvolga l’Iran, o di una ritorsione iraniana nei loro confronti. Infatti, dopo gli attacchi di matrice iraniana alle petroliere nel 2019 (soprattutto dopo quello che colpì al largo di Fujairah, ovvero a est dello stretto di Hormuz), furono proprio gli Eau ad avviare una de-escalation: essi non accusarono direttamente Teheran degli attacchi riavviando invece i colloqui tra guardie costiere, smarcandosi così dall’alleato saudita.

La lotta anti-Fratellanza Musulmana è invece il primo imperativo regionale di Abu Dhabi, che teme la portata trasformatrice del movimento e, soprattutto, il rafforzamento indiretto dei suoi sponsor, Qatar e Turchia, oggi primi rivali degli emiratini nella regione. I rapporti tra Emirati Arabi e Turchia sono diventati apertamente ostili: le due potenze mediorientali competono in Libia, Somalia, Sudan, Mediterraneo orientale, in parte Yemen e Tunisia. Quella tra emiratini e turchi (i primi sostenuti dai sauditi, i secondi dai qatarini e dagli iraniani), è ora la principale linea di faglia in Medio Oriente e nel quadrante del Mar Rosso-Corno d’Africa. Ma c’è di più: il Mediterraneo orientale è divenuto il terzo teatro di questo scontro indiretto per l’egemonia regionale. Già nel 2017, gli emiratini parteciparono alla prima esercitazione aerea con gli israeliani proprio in Grecia. Gli Emirati Arabi sono schierati con Cipro, Grecia, Israele ed Egitto nella partita per il gas mediterraneo (gasdotto East Med incluso): Abu Dhabi ha subito salutato l’accordo di demarcazione dei confini marittimi recentemente raggiunto fra Grecia ed Egitto. Tale allineamento permette agli emiratini di contenere le mosse della rivale Turchia fra Cipro e Libia. Tendendo ufficialmente la mano a Israele, Abu Dhabi punta così a consolidare la propria capacità d’influenza in Medio Oriente e nel Mediterraneo allargato, ancor prima che a “scrivere la storia” tra arabi e israeliani. Perché – come ha dichiarato lo stesso Gargash - l’accordo con gli israeliani “aprirà uno spazio di opportunità geostrategiche” per gli Emirati Arabi Uniti[11].

 

 

 

NOTE:

[1] Gli Emirati Arabi Uniti sono una federazione composta da sette emirati: Abu Dhabi, Dubai, Sharjah, Ras al-Khaimah, Ajman, Umm al-Quwain e Fujairah. Ogni emirato ha una propria dinastia regnante, un governo e un budget. Per un’analisi degli emirati più piccoli e settentrionali della federazione, si rimanda a E. Ardemagni, Strategic Littorals: Connectivity and Heritage in Northern UAE and Oman, ISPI Analysis, 10 gennaio 2020.

[2] Il Consiglio supremo raggruppa i sette emiri che guidano, rispettivamente, gli emirati che compongono la federazione degli Eau. Seppur tutti formalmente eguali, sono Abu Dhabi e Dubai (gli emirati più grandi per estensione territoriale, popolazione, ricchezza e contributo al budget federale), a guidare il processo decisionale a livello federale. Tradizionalmente i rispettivi sovrani occupano rispettivamente la carica di Presidente e di Primo Ministro della Federazione. Inoltre, dalla crisi finanziaria che colpì Dubai nel 2008 (salvata dal default nel 2009 grazie a un piano di salvataggio da parte di Abu Dhabi pari a 20 miliardi di dollari), è di fatto l’emirato di Abu Dhabi a governare gli Eau sul piano interno nonché nell’elaborazione della politica estera e di sicurezza, con Dubai in appoggio o, in alcuni casi, in non opposizione alle scelte degli Al Nahyan, la famiglia regnante di Abu Dhabi. Infatti, nel 2019 Abu Dhabi ha esteso ancora i tempi di restituzione del debito di Dubai. Su un piano istituzionale, gli Eau hanno anche un Consiglio Nazionale Federale, organo che unisce membri eletti e membri nominati dagli emiri (Abu Dhabi e Dubai hanno rispettivamente 8 seggi, Ras al-Khaimah e Sharjah 6 ciascuno, Ajman, Umm al Quwain e Fujairah 4 a testa).

[3] “UAE ministries may be merged post-coronavirus, says Sheikh Mohammed bin Rashid”, The National, 13 maggio 2020.

[4] R. Reynolds, “UAE Cabinet reshuffle appoints new ministers and merges departments”, The National, 5 luglio 2020.

[5] Edge ha assorbito Edic (Emirates Defense Industries Company, fondata nel 2014), Eaig (Emirates Advanced Investments Group) e Tawazun Holdings. Edge è composta da cinque rami: piattaforme e sistemi, missili e armi, cyberdifesa, warfare elettronico e intelligence, supporto alle missioni.

[6] “UAE’s EDGE to buy Lockheed stake in military maintenance company”, Reuters, 21 luglio 2020.

[7] Si veda per approfondire F. Heard-Bey, “The United Arab Emirates: Statehood and Nation-Building in a Traditional Society”, The Middle East Journal 59, vol. 3, July 2005, pp. 357-375.

[8] Questo focus si concentra sulla sola posizione/prospettiva degli Emirati Arabi Uniti. Per un’analisi più ampia dell’accordo di normalizzazione, il ruolo di Israele e i riflessi regionali, si rimanda all’approfondimento di questa pubblicazione.

[9] O. Shariff, “Anwar Gargash: UAE’s Israel embassy to be in Tel Aviv”, Gulf News, 20 agosto 2020.

[10] Si veda E. Ardemagni, The Geopolitics of Tolerance: Inside the UAE’s Cultural Rush, Commentary, ISPI, 3 febbraio 2019.

[11] O. Shariff (2020).

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Eleonora Ardemagni
Università Cattolica del Sacro Cuore e ISPI

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