Gli ultimi drammatici sviluppi nella regione di Idlib hanno riportato improvvisamente l’attenzione del mondo sulla Siria. Giovedì 27 febbraio, in un raid dell’aviazione siriana, oltre 30 soldati turchi sarebbero rimasti uccisi. La reazione di Ankara non si è fatta attendere, con operazioni militari che avrebbero ucciso diversi soldati del regime, e con la convocazione di una riunione di emergenza della NATO, durante la quale le autorità turche potrebbero addirittura chiedere di invocare l’articolo 5 dell’Alleanza (quello che fa scattare la difesa collettiva da parte degli altri membri). Per porre ancora maggiore pressione sugli alleati occidentali, infine, la leadership turca ha riaperto i confini occidentali del paese al passaggio dei profughi siriani – circa 3,5 milioni presenti sul territorio turco – che, come nel 2015-2016, potrebbero incamminarsi nuovamente in massa verso l’Europa. Tutto ciò avviene sullo sfondo di quella che le Nazioni Unite hanno definito la peggiore crisi umanitaria dall’inizio del conflitto e tra le peggiori della storia mondiale recente. Circa un milione di persone sono infatti ammassate al gelo da intere settimane a ridosso del confine turco, tentando di fuggire dall’offensiva del regime.
La crisi siriana ha subito un’escalation del livello di conflittualità a partire dalla fine del 2019, con il lancio di una nuova offensiva da parte del regime di Bashar al-Assad volta a riconquistare la regione di Idlib, ultimo bastione territoriale dell’opposizione armata. Il regime sembra deciso a riprendere i territori comprendenti le due arterie stradali M4 e M5 e tentare di estendere la propria avanzata anche più a nord. Da quello che emerge dalle manovre militari di Damasco, l’obiettivo sembra quello di isolare la stretta area intorno ad Idlib da nord e da sud, isolandola sia dal confine turco sia dalle principali arterie stradali, trasformandola in quella che molti commentatori hanno definito una sorta di Gaza siriana. La Turchia ha però reagito con durezza alle avanzate del regime siriano, che rischiano di riversare verso i confini della Turchia – che già ospita oltre 3,5 milioni di siriani – una nuova ondata di profughi. La tensione tra Ankara e Damasco è giunta all’apice il 3 febbraio, quando l’artiglieria siriana ha colpito una postazione dell’esercito turco all’interno dell’area di Idlib, uccidendo 8 militari e un civile di nazionalità turca. Nel frattempo, una crisi economica senza precedenti dall’inizio del conflitto ha colpito le aree del paese sotto il controllo del regime, causata in primo luogo dal grave deterioramento della situazione finanziaria del vicino Libano.
La nuova offensiva di Idlib
Il lancio da parte del regime di una nuova offensiva sulla zona di de-escalation di Idlib ha riportato l’attenzione sull’ovest del paese, dove si confrontano le truppe fedeli ad Assad e le milizie dell’opposizione armata, dopo il termine, almeno temporaneo, delle operazioni turche nel nord-est contro le milizie curde delle Unità di protezione popolare (Ypg).
Dal settembre 2018 la regione di Idlib è soggetta, almeno sulla carta, all’accordo stipulato a Sochi tra il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e quello russo Vladimir Putin, che prevede la creazione di una fascia demilitarizzata lungo il confine meridionale dell’area al fine di dividere i miliziani ribelli e le forze fedeli al regime di Damasco. Nell’ambito di tale accordo l’esercito turco ha creato diversi punti di osservazione all’interno della zona demilitarizzata ufficialmente aventi il compito di monitorare il cessate il fuoco tra le parti. Fin dai primi mesi dalla sua stipula, l’applicazione del compromesso di Sochi è risultata però altamente problematica, soprattutto a causa del consolidarsi nell’area di de-escalation del dominio della milizia jihadista – e in passato formalmente legata al network di al-Qaeda – di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), precedentemente nota come Jabhat al-Nusra. Secondo l’accordo tra Putin ed Erdoğan, infatti, la Turchia avrebbe avuto il compito di disarmare e smantellare i gruppi attivi nell’area di Idlib legati all’universo jihadista e riconosciuti dalla comunità internazionale come organizzazioni terroristiche. Nell’ultimo anno il fallimento di Ankara ad assolvere tale compito è quindi stato usato come giustificazione per frequenti violazioni della tregua stipulata a Sochi da parte delle forze del regime siriano sostenute dall’aviazione russa. Inoltre, l’allargamento delle aree del nord siriano sotto controllo turco e delle milizie ribelli fedeli ad Ankara dopo l’operazione “Peace Spring” nell’ottobre 2019, e il concomitante parziale ritiro delle truppe americane nella stessa area, sembrano aver spinto il regime a intraprendere una nuova offensiva di larga scala sulla zona di Idlib al fine di evitare un ulteriore consolidamento del dominio turco anche in quell’area.
L’ultima offensiva lanciata da Damasco si inquadra quindi nella volontà da parte del regime di eliminare l’ultimo bastione territoriale dell’opposizione armata e di evitare che esso possa consolidarsi come un’ulteriore area di influenza turca nel paese. Obiettivo primario delle operazioni militari è la riconquista delle due arterie stradali che attraversano la regione di Idlib, le autostrade M4 e M5 che collegano Damasco e Aleppo – i due centri urbani siriani più importanti – e questi ultimi alla costa mediterranea. Le direttrici prese dall’offensiva mostrano inoltre come Damasco punti a isolare la sacca intorno a Idlib sia da nord che da sud, in modo da privarla di qualsiasi contiguità territoriale con le restanti sacche in mano all’opposizione appoggiata dalla Turchia. Ankara ha però reagito con durezza alla nuova offensiva, soprattutto a causa delle crescenti preoccupazioni per un nuovo flusso di profughi verso i confini turchi. Nell’area di Idlib risiedono infatti circa 3 milioni di civili, di cui circa un milione avrebbe già iniziato a muoversi verso nord per sfuggire ai bombardamenti siriano-russi che, secondo le Nazioni Unite, hanno ripetutamente preso di mira aree e infrastrutture civili. Le condizioni di vita di queste persone sono state il soggetto di ripetute denunce da parte di numerose organizzazioni internazionali. Secondo le Nazioni Unite quella che avviene oggi a Idlib è la peggiore crisi umanitaria dall’inizio del conflitto.
Sviluppi futuri
Gli sviluppi dell’escalation militare su Idlib – e in particolare delle forti tensioni tra Ankara e Damasco – dipendono in primo luogo dalle prossime mosse dei due principali alleati di Assad, Iran e Russia. Da parte sua, Teheran sembra aver incrementato ulteriormente il proprio appoggio militare al regime dopo l’uccisione del generale delle Guardie della Rivoluzione Qassem Soleimani all’inizio di gennaio. La leadership iraniana sembra decisa a dimostrare che la perdita di uno dei leader più importanti per la Repubblica Islamica e per la sua proiezione in Medio Oriente non influirà negativamente sulla propria presenza in scenari chiave come quello siriano. Dalla fine di gennaio Teheran ha dato quindi il via libera al coinvolgimento delle milizie sciite fedeli all’Iran – soprattutto provenienti da Afghanistan e Pakistan – sul fronte di Idlib, dopo che nei mesi precedenti lo stesso Soleimani aveva evitato il coinvolgimento in quest’area del conflitto.
È però soprattutto dalle prossime mosse della Russia che dipendono tanto l’evolversi delle relazioni tra Damasco e Ankara quanto il destino dell’offensiva su Idlib. Fin dall’inizio del suo intervento in Siria nel 2015, Mosca è riuscita a portare avanti abilmente sia il sostegno militare al regime di Assad, sia lo sviluppo di una partnership strategica con la Turchia, principale sponsor dell’opposizione armata siriana. L’escalation senza precedenti tra Ankara e Damasco mette Mosca di fronte a una scelta complessa: schierarsi completamente con il proprio protégé siriano oppure accettare in via pressoché definitiva la presenza turca in buona parte della Siria settentrionale. La prima opzione, pur perseguendo l’obiettivo russo di preservare pienamente l’integrità territoriale siriana, rischia di azzerare i rapporti con Ankara, faticosamente costruiti negli ultimi quattro anni e rivelatisi cruciali per lo sviluppo del ruolo russo in diversi scenari mediorientali. La seconda, usare la propria influenza su Damasco per frenare l’espansione del regime a nord dell’autostrada M4 presenta per Mosca almeno due vantaggi determinanti: confermarsi agli occhi di Ankara come partner imprescindibile e affidabile – e alternativo all’Occidente – e preservare un decisivo livello di leverage nei confronti di Assad. Se infatti, da una parte, l’appoggio russo è risultato essenziale per garantire la sopravvivenza del regime e permettergli di riconquistare gran parte dei territori perduti durante la rivolta, dall’altra il consolidamento politico e territoriale del governo di Damasco ha reso negli ultimi mesi il ruolo russo in Siria meno vitale per il regime, rischiando di intaccare l’influenza russa nel paese. È sempre più dubbio, infatti, se l’intransigenza dimostrata da Mosca nei confronti dei partner turchi durante gli ultimi incontri bilaterali dipenda davvero da una decisione del Cremlino o dalla consapevolezza di non poter più condizionare fino in fondo l’alleato siriano. Mosca si trova oggi a un bivio di quella che finora è stata la sua avventura di politica estera più riuscita. Un bivio che potrebbe diventare ancora più drammatico in caso di forte risposta unilaterale da parte di Ankara.