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Commentary

La debolezza degli stati saheliani di fronte alla sfida del jihadismo

11 aprile 2016

La genesi degli stati africani, soprattutto per quanto riguarda la loro conformazione geopolitica, è stata segnata, più di quanto non avvenga un po’ ovunque quando ci siano scambi trasversali di carattere umano o economico, da influenze esterne. Il colonialismo europeo, nella sua funzione di state-maker, ha rappresentato il fattore che ha influito di più non solo sul tracciato dei confini ma sulle istituzioni e in ultima analisi sui meccanismi del potere, a cominciare dal grado effettivo d’indipendenza conseguita o consentita. 

Si adattava particolarmente bene allo stato africano neo-indipendente la fattispecie di “quasi-stato” che trovò la sua teorizzazione in un libro di Robert H. Jackson (Quasi-States. Soveireignity, International Relations and the Third World, Cambridge University Press, 1993), che riguarda tutto il Terzo mondo e non la sola Africa. Un altro studioso, Christopher Clapham, ritornando sulle capacità degli stati africani di muoversi nel sistema internazionale, evidenzia soprattutto le carenze strutturali di paesi inseriti, individualmente o collettivamente, nell’orbita delle grandi potenze (Christopher Clapham, Africa and the International System. The Politics of State Survival, Cambridge University Press, 1996 e il suo articolo in “Quaderni di Relazioni Internazionali, maggio 2009). Non è detto che uno stato “dipendente” abbia le stesse fragilità del “quasi-stato”, perché esso si può avvalere delle garanzie che gli fornisce a certe condizioni la potenza di riferimento (in genere, nelle prime fasi del post-indipendenza, Francia o Regno Unito). 

Si spiega anche così la “tenuta” degli stati africani a confronto di stati appartenenti a continenti ritenuti più stabilizzati come Europa e Asia. Fu solo negli anni Novanta che si verificarono i primi cedimenti: in Etiopia con la nascita dell’Eritrea e in Sudan con il distacco del Sud-Sudan. Questi strappi si collocano in un’area compresa fra il Nilo e il Mar Rosso che – può sembrare un paradosso – aveva conosciuto in epoca antica, differenziandosi in ciò dal resto dell’Africa, la formazione di stati dotati di un propria forza e di una capacità o vocazione egemonica. Il colonialismo esercitò le manipolazioni che gli detta il suo interesse a indebolire gli imperi in grado resistere di più. Fu appunto questo il caso dello Stato islamico del Mahdi e dello Stato di Menelik. Una volta distrutto lo stato mahdista, le regioni meridionali del Sudan, a prevalente popolazione nera con un’ingente porzione di cristiani, vennero amministrate dal Regno Unito in modo separato accentuando i divari. Fra Etiopia ed Eritrea non c’erano distinzioni di popolamento e fedi religiose e prevalse se mai la più lunga durata del colonialismo italiano nella parte di costa e di altopiano che si affaccia sul mare, il Mareb Mellash, rispetto al cuore duro dell’impero abissino rifondato a metà dell’Ottocento da tigrini e amhara cristianizzati, sotto attacco da parte del colonialismo italiano dalla fine del XIX secolo ma alla resa dei conti appena sfiorato da un’occupazione breve e precaria alla vigilia della Seconda guerra mondiale (prescindendo ovviamente dalla sorte dell’Eritrea).

Sudan ed Etiopia hanno avuto una storia orientata verso l’Egitto e la penisola arabica più che verso il resto dell’Africa. La diffusione del cristianesimo avvenne nei primi secoli a opera di monaci siriani anche se nel Sudan il cristianesimo fu riesumato e vivificato da missionari in epoca coloniale. L’islamizzazione di questa porzione di Africa fu il prodotto della prima ondata migratoria degli arabi dopo la predicazione di Maometto e degli avamposti che il potere arabo all’apogeo disseminò fra Mar Rosso e Oceano Indiano. Ma, di nuovo, il Sudan si distinse perché fu teatro di un’esperienza di islamizzazione mediante un movimento fondamentalista che si impose con la forza applicando un’idea di stato accentrato per certi versi moderna e in sintonia con quanto stava avvenendo in tutta l’Africa occidentale all’atto dell’offensiva coloniale negli anni della Conferenza di Berlino (1884-1885).

La regione a cui più propriamente si adatta la locuzione di Sahel – riva, la sponda meridionale del deserto, stessa radicale di swahili, che qualifica invece la cultura con la relativa lingua fiorita sulla costa dell’Oceano Indiano – ha beneficiato dei traffici attraverso il Sahara che vi hanno esportato merci e valori provenienti dal Nord Africa arabizzato. Gli imperi sudanici che si sono affermati dal VII secolo in poi, raggiungendo il massimo fulgore nel XII-XIII secolo, furono un melange di arabismo e africanità. Le funzioni di “metropoli”, avvalorate dalla loro posizione-chiave nel punto d’incontro fra i due flussi, di Timbuctu, Gao e Djenné, vennero totalmente dequalificate quando il fulcro propulsivo dell’Africa occidentale si spostò dal Sahara all’Oceano Atlantico con l’Europa come nuovo motore di integrazione e di progresso. 

I protagonisti della “resistenza primaria” all’impianto del colonialismo erano per lo più di fede musulmana e l’islam si ripropose come collante della statualità africana. Avevano compiuto il pellegrinaggio rituale alla Mecca (haji) o si fregiavano di titoli della gerarchia islamica (almami). Nelle regioni settentrionali della Nigeria moderna, all’inizio del XIX secolo, un jihad con alla testa Usuman dan Fodio portò alla creazione di un califfato articolato in sette città-stato con Sokoto come centro. Gli stati saheliani presentano ancora un dualismo e il Nord, irrorato da islam e epopea dell’arabismo, non si è integrato se non con moltissima fatica nella realtà forgiata dal colonialismo insieme alla propagazione del cristianesimo. La medesima sindrome si riscontra nella dialettica Nord-Sud della Nigeria, che condivide in parte le vicende del Sahel di cui è una propaggine anche se che, grazie alle sue dimensioni, ha un lungo fronte sull’oceano.

Lo “scontro di civiltà” che ha avuto il suo epicentro nel Grande Medio Oriente non ha risparmiato questa specie di “marca” occidentale di un Arabistan pervaso da tensioni e fanatismi in parte esportati ancora dal Nord (Algeria, Libia). L’Aqim (al-Qaida del Maghreb islamico) ha capi e una parte dei militanti di origine algerina, i residui oltranzisti delle formazioni islamiste che non accettarono di condividere la ricomposizione politica in nome della concordia nazionale avviata da Bouteflika per chiudere il conflitto intestino scatenatosi dopo il colpo di stato nel gennaio 1992 contro la vittoria elettorale del Fronte islamico della salvezza. Dopo la fine del regime di Gheddafi, da una Libia allo sbando si sono dispersi oltre il Fezzan i quadri ormai abbandonati a se stessi della Legione africana messa insieme dallo stesso Gheddafi, fornendo alle guerre in corso in tutto il Sahel armi ed expertise militare. 

L’elemento più vivace di contestazione, e quasi di antitesi agli stati costituiti, è rappresentato dai nomadi o semi-nomadi, berberi ma non solo, che non accettano i confini e i principi di convivenza regolata propri di stati espressi da società, contadine o urbanizzate, che si fondano sulla stabilità e una giurisdizione teoricamente valida per tutti in un territorio definito e difeso come tale. La prova di forza del jihadismo, alleato agli autonomisti in loco, ha avuto il suo apice nella creazione nel 2012 dello Stato indipendente di Azawad nel Mali settentrionale, poi teatro, all’inizio del 2013, dell’Operazione Serval diretta dalla Francia. Fra gli stati saheliani, il Ciad si distingue per aver anticipato di venti-trent’anni l’ascesa al potere dell’élite musulmana del Nord a scapito della classe dirigente cristiana del Sud:  il presidente dell’indipendenza era François Tombalbaye; oggi al potere c’è Idriss Déby Into, presidente ininterrottamente dal 1990, che, vinto l’ultimo duello con Hissène Habré ora sotto processo in Senegal per crimini di guerra, ha finito per essere accettato dalla Francia fungendo ormai da principale pilastro della “ri-colonizzzazione” avviata da Sarkozy e completata da Hollande. L’Operazione Barkhane, lanciata nel 2014 da Parigi, si propone di assistere i governi alleati contro le violenze dell’islamismo radicale ovunque si manifestino. La capitale del Ciad, N’Djamena, ospita il quartier generale con 3.000 soldati francesi. Ne ha beneficiato indirettamente anche la Nigeria, che per contenere e debellare Boko Haram ha accantonato la sua tradizionale diffidenza nei confronti della Francia. 

Proprio il caso della Nigeria è esemplare. L’elezione di Mohammadu Buhari alla presidenza nel 2015 ha cambiato di colpo le prospettive della politica nazionale e in particolare le circostanze e l’essenza stessa dell’insorgenza islamista. Boko Haram aveva perduto l’argomento più pregnante della sua propaganda, ancora capace di sedurre durante i mandati del presidente uscente, Goodluck Jonathan, un cristiano del Delta. Non può più accanirsi contro l’insensibilità e persino estraneità della classe dirigente del Sud. Buhari appartiene all’aristocrazia musulmana le cui radici rimontano al jihad che ha dato origine allo stato su cui più tardi, nel prosieguo dell’Ottocento, si sarebbe esteso il dominio dell’Inghilterra vittoriana. Sarebbe stato tremendo anche il minimo sospetto di una complicità del presidente con il jihadismo sulla base della comunanza di fede o, peggio, di una giustificazione della violenza distruttiva del terrorismo contemporaneo con il ricordo della “guerra santa” fondativa di duecento anni fa.

Sono gli stessi stati – se non falliti in senso stretto, fatalmente fragilizzati dallo scontro a tutto campo fra jihadismo e war on terror che devasta il Medio Oriente fino a Sirte nonché la fascia sahelo-sahariana – a reagire affidandosi in questo caso soprattutto alla Francia, l’ex-madrepatria di ritorno, e in parte agli Stati Uniti, che forniscono copertura di alta tecnologia, intelligence e armi in cambio di basi da Gibuti al Niger. La loro autonomia ne è appannata e la sicurezza in pericolo. L’offensiva terroristica, con metodi che ricordano, e forse utilizzano come centrale al-Qaida più che l’Isis, ha già colpito Mali e Burkina e persino la lontana Costa d’Avorio. I bersagli sono alberghi e resort frequentati da occidentali. Spesso a intervenire contro gli assalitori sono forze speciali francesi. Si sta imponendo così l’immagine di una lotta che trae spunto – oltre che dall’islam integralista – da risentimenti vecchi o nuovi di sapore anti-coloniale. È nel fondamentalismo del resto che i richiami alla religione e alla storia come rappresentazione del proprio passato si coniugano alla perfezione.

Ogni stato ha una sua storia. La Somalia – al di là dei possibili accordi logistici fra al-Shabaab e Aqim – è certamente diversa dal Mali. Di “somalizzazione” si è parlato piuttosto a proposito della Libia, dove pure clan e cabile hanno più forza d’attrazione dello Stato nazionale o pseudo-nazionale. Fra dissonanze e consonanze, la fenomenologia che si ispira al jihadismo sta logorando una serie di Stati africani che si portavano dietro un’intrinseca debolezza la cui origine va cercata nella posizione critica a cavallo di due mondi diversi in sé e rimasti tali nel corpo di compagini formalmente unificate.

Gian Paolo Calchi Novati, ISPI e Università degli Studi di Pavia
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