Nelle ultime settimane la proiezione internazionale cinese ha acceso i toni del dibattito europeo e americano. Da quando il numero di nuovi contagi nella città-epicentro di Wuhan ha cominciato a rallentare, infatti, Pechino ha spostato l’attenzione dalle sue province centro-meridionali verso il resto del mondo. Da qui è nata la “diplomazia delle mascherine”, la “politica della generosità” o, molto più semplicemente, è tornato in auge il soft power cinese. In questa sede, vale la pena ricordare brevemente cosa sia e da dove arrivi il concetto di soft power. Prendendo in prestito le parole di Joseph Nye, il politologo che coniò il termine, il soft power è “la capacità di ottenere ciò che si desidera per attrazione e persuasione piuttosto che per coercizione o pagamento”. Se per l’Italia uno strumento di soft power è, per esempio, l’opera lirica, gli Istituti Confucio da sempre muovono come “alfieri” del soft power cinese in tutto il mondo. La proiezione dell’influenza cinese verso l’esterno non è quindi una delle tante “rivoluzioni” iniziate dalla pandemia di coronavirus. Anzi, Pechino ha fatto della propria immagine – ossia, quella di una potenza responsabile e genuinamente interessata a ciò che accade nel mondo – un obiettivo chiave di politica estera.
Certamente, la strategia di soft power scelta da Pechino si è trasformata negli ultimi mesi, passando da un pennello calligrafico a una mascherina chirurgica. Sebbene al centro di questa trasformazione continui ad esservi l’ormai consolidato desiderio di creare un nuovo ordine mondiale nel lungo periodo, il soft power cinese di queste settimane consta anche di due obiettivi di breve termine.
Parliamo quindi delle mascherine, del materiale sanitario e dell’expertise medica che Pechino sta fornendo un po’ a tutto il mondo. Per farci un’idea dei numeri, prendiamo ad esempio l’Africa, una delle ultime aree nel mondo ad essere state colpite dal coronavirus (e ad aver ospitato una visita di stato cinese). Secondo il Financial Times, soltanto la “Jack Ma Foundation” (l’ente benefico del fondatore del gigante dell’e-commerce Alibaba) ha donato 100.000 mascherine, 20.000 kit diagnostici e 1.000 tute protettive ad ognuno dei 39 paesi africani colpiti dal contagio. Una semplice moltiplicazione rende l’idea della portata della donazione di Alibaba al continente: un unico donatore e un solo ricevente che, tuttavia, danno il tono della portata dell’outreach cinese nel mondo.
Quello che i numeri, in sé per sé, ci dicono con certezza è che la “diplomazia delle mascherine” è fondamentale per Pechino. Quello che ci fanno solo intuire, invece, è il perché. In primis, la Cina usa questa nuova forma di soft power per rifarsi dell’immagine negativa che il virus le ha lasciato: il paese che ha trasmesso il coronavirus al mondo, il paese la cui mancanza di trasparenza ha fatto scatenare una pandemia. Una storia che ha infiammato i media nelle ultime settimane e che ha inflazionato il termine “narrativa” su Twitter. Certo, è innegabile che Pechino stia tentando di restaurare l’immagine classica di “potenza responsabile e interessata”. Ne ha bisogno: gli investimenti della “Belt and Road Initiative” (BRI) non sono stati spazzati via dal coronavirus, ma sono rimasti esattamente dove li avevamo lasciati. In passato, la Cina ha dimostrato in più occasioni di saper imparare dai propri errori. Ha capito, infatti, quanto sia importante per la riuscita del progetto BRI mantenere alto il consenso delle leadership politiche dei suoi partner. Per cui, se il presidente serbo Aleksandar Vučić chiama, dopo lo sviluppo della partnership economica e di sicurezza dei due paesi negli ultimi anni, la Cina risponde.
Certo, Pechino è anche nella posizione di “potersi permettere” questo tipo di soft power. L’indice di ripresa dell’economia cinese del Financial Times nelle ultime settimane mostra infatti un aumento delle attività in diversi settori, tra cui l’immobiliare e l’energetico. La Cina potrebbe quindi essere il primo paese a riprendersi dalla pandemia, non solo dal punto di vista sanitario, tentando di fare quello che aveva fatto dopo la crisi finanziaria del 2008: adottare misure per stimolare la domanda globale e trainare l’economia mondiale fuori dalla crisi. La differenza è che nel 2008 era stata affiancata dagli Stati Uniti, mentre quest’anno è, per il momento, rimasta sola.
In secondo luogo, la Cina non rivolge questa nuova forma di soft power solo a un’audience esterna, ma anche a una interna. Da una parte, la leadership cinese è stata intaccata agli occhi dei cinesi perché, neanche vent’anni dopo l’epidemia di Sars del 2002-03 (che in Cina portò alla morte di 649 persone), una nuova epidemia, di un ceppo simile a quello della Sars, ha di nuovo scosso il paese. Il Partito Comunista Cinese, all’epoca sotto la guida di Hu Jintao, aveva promesso che nulla di simile sarebbe mai ricapitato e i cinesi, che gli avevano creduto, avevano ristabilito la piena fiducia nella leadership. Dall’altra, con il coronavirus, Pechino si è anche trovata ad affrontare una rara “insurrezione” mediatica dopo la morte di Li Wenliang, il giovane medico di Wuhan che per primo si era reso conto dell’insorgere di una malattia simile alla Sars ed era stato costretto al silenzio da esponenti locali di Partito.
Non è dunque un caso che Pechino abbia optato per un soft power che proietta l’immagine di una Cina non più “untrice” ma “guaritrice”. Un’immagine che, seppur da lontano, ricorda il principio della “pietà filiale”, una delle anime del confucianesimo: un’associazione di idee che fa breccia soprattutto nel cuore della società cinese. Ma non solo: il principio ben si sposa anche con l’immagine che la Cina vuole costruirsi nel mondo, ossia quella di una “nuova” potenza che rinnova il “vecchio” ordine mondiale e se ne “prende cura”. Non solo, quindi, uno strumento per ripristinare la posizione della Cina nella corsa all’egemonia mondiale, ma un soft power che fa un assist al presidente XiJinping e alla sua BRI.