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Commentary
La diplomazia dell’immigrazione
06 marzo 2013

Che l’immigrazione non sia solo una questione interna, ma che possa talvolta trasformarsi in una questione di rapporti internazionali, in Italia lo sappiamo piuttosto bene.

In molti ricordano come lo storico trattato di amicizia siglato nel 2008 (e il precedente del 2007) con la Libia di Gheddafi includesse la richiesta da parte dell’Europa – e dell’Italia – perché la Libia si facesse in parte carico di fermare, o comunque regolare, i flussi migratori provenienti dalle sue sponde verso l’Europa. I contraenti europei erano consapevoli del fatto che spesso i metodi utilizzati dai libici non sarebbero stati proprio conformi ai parametri internazionali, ma essi si dimostravano pienamente disposti a chiudere un occhio. In cambio il colonnello libico otteneva un trattato di amicizia che ne sanciva definitivamente l’uscita dalla schiera dei “paria” internazionali, insieme a un lungo elenco di agevolazioni economiche, commerciali, e investimenti infrastrutturali da miliardi di euro. 

Che Gheddafi avesse abilmente usato i flussi migratori provenienti dal suo paese come arma diplomatica per ottenere questo risultato non era un segreto per nessuno. Consapevole della potenza che aveva l’argomento, e che ha tuttora, sulle opinioni pubbliche di tutta Europa, seppe sfoderarlo anche in procinto dell’intervento Nato a favore dei ribelli che avrebbe portato alla sua capitolazione, minacciando i paesi europei – e prima di tutto l’Italia – di una vera “invasione” se avessero proceduto con il sostegno militare ai suoi oppositori. L’immigrazione usata come arma diplomatica non è un fenomeno che riguarda solo i rapporti tra l’Occidente e i suoi vicini. Nel recente passato, infatti, paesi lontani dai confini europei sia geograficamente che culturalmente si sono resi protagonisti di dispute che hanno visto gli immigrati usati come vero e proprio strumento di pressione diplomatica.  

Un primo esempio ci arriva dal Medio Oriente. All’inizio della Primavera araba, infatti, le monarchie del Golfo, terrorizzate da un possibile effetto contagio proveniente da Tunisia ed Egitto, bloccarono i rinnovi dei permessi di soggiorno e lavoro per le centinaia di migliaia di lavoratori nordafricani (solo gli egiziani sono oltre un milione) presenti nel loro territorio. Non solo, il deterioramento delle relazioni diplomatiche con l’Egitto, seguito alla vittoria dei Fratelli musulmani – visti come competitor dai wahabiti sauditi – nelle elezioni parlamentari d’inizio 2012, portò a un’ulteriore repressione dei lavoratori egiziani nel regno. Essa culminò nell’aprile 2012 con l’arresto dell’avvocato Ahmed al-Gizawy, impegnato da tempo nella difesa dei cittadini egiziani arrestati e spesso torturati, con l’accusa di “offesa all’onore del regno”, in seguito ad alcune sue dichiarazioni sulle condizioni di detenzione degli egiziani in Arabia Saudita. Al momento dell’arresto le autorità saudite gli contestarono anche il possesso, mai veramente provato, di un’enorme quantità di psicofarmaci vietati in Arabia Saudita, per i quali nel gennaio 2013 è stato condannato a cinque anni di reclusione e 300 frustate. La vicenda di al-Gizawy ha portato a una delle più gravi crisi diplomatiche della storia delle relazioni fra i due paesi. Migliaia di dimostranti si sono radunati fuori dall’ambasciata saudita del Cairo protestando contro i metodi utilizzati dal regno saudita verso gli immigrati egiziani e costringendo l’Arabia Saudita al ritiro della proprio delegazione diplomatica per alcuni giorni. 

Dalla salita al potere della Fratellanza musulmana in Egitto, e il seguente deterioramento dei rapporti tra questa e i monarchi del Golfo, gli immigrati nordafricani sono diventati un vero e proprio strumento di pressione diplomatica da parte dei paesi più spaventati dall’avvento della Primavera araba.  

In questi giorni, dall’altra parte del mondo, anche i rapporti fra due paesi asiatici come Nord Corea e Cina stanno vedendo gli immigrati utilizzati come arma di pressione diplomatica. 

Il 28 febbraio l’agenzia sudcoreana Yonhap ha infatti riportato alcune informazioni pervenutele informalmente da alcuni ufficiali cinesi, secondo i quali le autorità di Pechino avrebbero iniziato una vera e propria campagna di repressione verso gli immigrati nordcoreani, come atto di pressione diplomatica verso il programma nucleare e missilistico di Pyongyang. La Cina, da tempo, contesta l’atteggiamento tenuto dalle autorità nordcoreane, che nella sua visione rischiano di compromettere la stabilità del sud-est asiatico a discapito della Cina stessa. Quest’ultima è il principale alleato, nonché partner commerciale, del regime nordcoreano, ed è anche la fonte degli aiuti economici e alimentari che permettono a quest’ultimo di sopravvivere. La Cina è anche pressoché l’unica meta di emigrazione dei nordcoreani (fuoriusciti politici a parte). Circa 80mila immigrati lavorano nella località di Shenyang e nella provincia di Liaoning, impiegati soprattutto in industrie alimentari e tessili, dove, approfittando del divieto imposto loro di cambiare lavoro, vengono pagati quasi il 30% in meno degli operai cinesi. Inoltre molti di loro sono assunti informalmente, al fine di violare il limite imposto dalla legge cinese che prevede un massimo di 20% di lavoratori stranieri assunti nell’industria.  

Questi provvedimenti verso gli immigrati nordcoreani vanno interpretati come il classico intervento diplomatico indiretto e velato, tipico della diplomazia cinese. Esso verrà probabilmente ignorato in forma ufficiale dalle autorità nordcoreane, ma c’è da scommettere che il messaggio è stato recepito perfettamente. 

Questi tre esempi, in tre luoghi lontani fra lorogeograficamente e culturalmente, dimostrano come la gestione dell’immigrazione come strumento diplomatico non sia un fenomeno nuovo, esso è entrato a pieno titolo ormai in molte nazioni. La sua efficacia può variare, il caso libico è stato un “successo”, quello saudita-egiziano solamente in parte, mentre ne dobbiamo ancora apprezzare gli effetti nel caso cino-coreano. Il futuro riserva con ogni probabilità altri episodi simili, che ci daranno un’ulteriore misura delle potenzialità di tale strumento diplomatico. La misura della sua morale, invece, possiamo calcolarla da subito.

* Eugenio Dacrema, ISPI Research Assistant

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Libia diplomazia Gheddafi Italia Nord Corea Cina trattato di amicizia Medio Oriente Fratellanza Musulmana Primavera Araba immigrati Egitto Ahmed al-Gizawy flussi migratori Tunisia
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