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Commentary

La diplomazia vaticana secondo Francesco: dialogo interreligioso ed evangelizzazione

26 novembre 2015

Una diplomazia della “tenerezza”, pacata e diretta. Un’azione precisa, senza filtri, di un Pontefice sudamericano che con viaggi, appelli, telefonate intercontinentali e incontri informali a Santa Marta è riuscito a scolpire dei “piccoli” capolavori diplomatici, riuscendo allo stesso tempo a far crescere vorticosamente, nel giro di due anni, il peso della Santa Sede nello scacchiere politico internazionale. 

Nonostante il viaggio in Africa di Papa Francesco sia una visita che poco c’entra con l’azione diplomatica della Santa Sede, essendo piuttosto una visita dall’alto contenuto simbolico per il dialogo interreligioso e per la richiesta di un futuro per i giovani in una terra dilaniata dalle guerre civili, la missione di Francesco in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana può portarci sulla strada di una diplomazia “francescana” delle religioni e dei diritti umani. Un punto che Papa Francesco ha voluto porre come pilastro della sua azione pastorale, insieme a quella diplomatica in senso stretto. Non è un caso se, nel corso dell’ultima tappa di questa missione, nella Repubblica Centrafricana – paese dove secondo l’intelligence francese si nasconderebbero dei terroristi islamici pronti a colpire il Pontefice –, Francesco aprirà la prima porta santa della misericordia (anticipando di una settimana l’inizio del Giubileo), ma soprattutto si recherà in visita nella moschea centrale di Bangui, luogo sacro dove Bergoglio incontrerà la comunità islamica. «Vengo da voi come messaggero di pace» ha voluto far sapere Francesco con un videomessaggio al popolo africano qualche giorno prima del suo arrivo nel continente nero; un video che l’arcivescovo e presidente della Conferenza episcopale centrafricana, Dieudonné Nzapalainga ha voluto mostrare proprio alla comunità musulmana, nella speranza che le tensioni e gli scontri religiosi nella regione possano quantomeno placarsi. 

Un ennesimo passo in avanti per il dialogo interreligioso, senza dimenticare, però, quelli che sono i progetti a medio e lungo termine di Jorge Bergoglio, l’argentino che con una squadra di diplomatici di razza (dal segretario di stato, Pietro Parolin, molto impegnato da anni sul fronte asiatico, al segretario per i rapporti con gli stati, l’inglese Paul Richard Gallagher, e al sostituto della segreteria di stato, Angelo Becciu, impegnato sul fronte italiano e su quello più occidentale) ha già messo a segno alcuni risultati senza precedenti. Parliamo ad esempio della mediazione decisiva per porre fine alle tensioni tra Cuba e Stati Uniti: un’azione sottotraccia del Pontefice che con lettere, incontri ufficiali e telefonate private, dopo decenni di lenti negoziati portati avanti da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, è riuscito a riavvicinare i due paesi per abbattere il muro tra Washington e L’Avana, recandosi infine personalmente nei due paesi lo scorso settembre. «Da Cuba agli Stati Uniti d’America: è stato un passaggio emblematico», ha detto Francesco di ritorno dalla sua missione americana, «Un ponte che grazie a Dio si sta ricostruendo. Dio sempre vuole costruire ponti; siamo noi che costruiamo muri! E i muri crollano, sempre!».

Ma non va dimenticata la veglia di preghiera per la pace in Siria, lo storico incontro nei giardini vaticani organizzato dal Papa e al quale hanno preso parte i presidenti di Israele e Palestina con il Patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo. E poi i messaggi e le frequenti visite del presidente russo Putin, escluso dal G8, ma accolto da Francesco per stringere accordi su diritti umani e strategie di pace. Tanti piccoli tasselli che sembrano aver riportato il Vaticano ai tempi del cardinale Agostino Casaroli e dell’Ostpolitik vaticana o a quelli di Giovanni XXIII e della crisi dei missili di Cuba con la diplomazia d’Oltre Tevere scesa in campo per raffreddare le tensioni tra il cattolico John Fitzgerald Kennedy e il Cremlino.   

Ma l’obiettivo principale di questo pastore diplomatico sembra essere un altro: l’evangelizzazione dell’Asia. Un punto in cima all’agenda di Bergoglio, Pontefice che in soli due anni ha già visitato tre paesi dell’area (Filippine, Corea del Sud e Sri Lanka) e che nell’ultimo concistoro del febbraio 2015 ha creato tre cardinali asiatici, cercandoli “alla fine del mondo”, in Vietnam, Thailandia e Myanmar. L’uomo chiave per il Papa in questo caso è ancora il suo “primo ministro”, Pietro Parolin, l’uomo allevato alla scuola diplomatica di Casaroli e Sodano e che per anni, prima di esser chiamato a Roma dal Pontefice come segretario di stato, lavorò alle relazioni con Vietnam e Cina. Oltre che su Parolin, il Papa, per aprire un canale con la Cina punta tutto anche sull’arcivescovo di Manila, Luis Antonio Tagle (considerato da molti in Vaticano come il successore naturale di Francesco), e su Mons. Giuseppe Pinto, il nunzio apostolico nelle Filippine.

I passi avanti ci sono anche in questo senso: Bergoglio non ha nascosto il desiderio di potersi recare in Cina per un viaggio apostolico “anche domani!” e Pechino sembra aver lanciato qualche segnale di apertura, dedicando ad esempio, lo scorso agosto, per la prima volta in assoluto, un servizio televisivo sull’Angelus di Francesco, che in quell’occasione aveva pregato per i feriti della tragedia di Tianjin. Intanto si continua a lavorare sottotraccia per avviare dei timidi contatti, tenendo sempre in primo piano però la necessità, anche nella diplomazia, di “tenerezza”, tanto auspicata da Bergoglio sin dai primi momenti del suo pontificato: «Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi nemmeno della tenerezza, il vero potere è il servizio» aveva detto il 19 marzo 2013 durante la messa d’inizio pontificato. E lì ad ascoltarlo, in quell’occasione, c’erano anche rappresentanti diplomatici e capi di stato di tutto il mondo

Fabio Marchese Ragona, Vaticanista Mediaset

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