I piani della finanza pubblica italiana dovranno prima o poi affrontare il confronto con le autorità europee. Saremo chiamati a contenere il deficit e a specificare come ridurremo il rapporto fra debito e Pil. Poiché stiamo cercando di darci un nuovo governo, la questione verrà affrontata con gradualità e le decisioni principali rimandate all’autunno. Se anche il nuovo esecutivo fosse tendenzialmente ribelle nei confronti delle regole di Bruxelles, è probabile che sarà indotto a moderarsi e, in qualche misura, a tenerne conto. Se anche la Commissione volesse essere severa nei nostri confronti, è probabile che terrà conto con qualche flessibilità della delicatezza dei nostri equilibri politici. Tutti concordano nel ritenere il nostro debito eccessivo ma quasi nessuno crede che lo ridurremo davvero tempestivamente.
Fatto sta che il caso italiano è un esempio di come la disciplina della finanza pubblica amministrata da Bruxelles, sia meno efficace, tempestiva, credibile di quanto vorrebbe e, soprattutto, di come sia controversa. I suoi criteri, i suoi parametri, non sono abbastanza condivisi da politici ed economisti. Inoltre, poiché durante gli anni di crisi dell’eurozona l’indirizzo dato alle politiche di bilancio è stato manifestamente troppo restrittivo, si è cercato di integrare le regole fiscali comunitarie con una serie di eccezioni, per renderle più flessibili e adattabili a periodi di difficoltà dell’eurozona e dei singoli Paesi membri. Con ciò le regole sono diventate troppo complicate e più discutibili. Anche la Commissione è del parere di ripensarle e semplificarle. Questa stessa intenzione rende meno credibile ogni sua manifestazione di severità.
Il coordinamento comunitario delle finanze pubbliche europee è in crisi di consenso ed efficacia. In estrema sintesi ciò è dovuto al fatto che la “disciplina amministrativa”, chiamiamola così, richiederebbe una virtuosa convivenza di regole e discrezionalità ma né le une né l’altra hanno modo di funzionare con efficacia. Per le regole servirebbe una capacità di enforcement che manca ai poteri comunitari, mentre la discrezionalità dovrebbe basarsi su una legittimazione politica che non è pienamente riconosciuta a quei poteri centrali. Se le regole non si possono imporre e la discrezionalità rischia l’accusa di essere illegittima, qualunque loro misto entra in crisi.
Ogni riforma della disciplina amministrativa di Bruxelles deve dunque affiancarsi a una valorizzazione della “disciplina di mercato”, cioè della pressione che chi investe nei titoli di Stato dei Paesi dell’eurozona può esercitare su chi li emette chiedendo tassi più alti a chi ne emette di più. In parole povere, i famosi “spread” devono segnalare il grado di accettabilità del debito pubblico dei vari Paesi da parte degli investitori e i governi devono sentire lo stimolo a contenere il loro indebitamento in modo da non doverlo pagar troppo.
Perché la disciplina di mercato abbia il suo ruolo occorre, in primo luogo, che l’opinione dei mercati sulla sostenibilità dei debiti pubblici possa davvero esprimersi nei tassi sui titoli di Stato dei vari Paesi, che devono alzarsi quando un governo si indebita troppo. Questa valutazione dei mercati non trasparirà adeguatamente fino a quando non finirà il quantitative easing della BCE, il suo continuo e massiccio acquisto di titoli di Stato, disposto a suo tempo per far fronte a un’eccezionale crisi dell’eurozona. Inoltre le banche devono essere indotte a contenere la quantità di titoli del loro governo che detengono in portafoglio, smettendo di essere, in sostanza, detentori di ultima istanza di titoli che per essere collocati altrove richiederebbero tassi più elevati. Serve anche che un’eventuale default di un emittente sovrano sia regolato in modo da poter svolgersi in modo ordinato, senza risultare disastroso per l’intera eurozona. Poiché un’insolvenza disastrosa viene considerata impossibile, il mercato si aspetta il salvataggio con fondi comunitari di ogni Stato in difficoltà. Ma allora perché forma spread diversi e non accetta gli stessi tassi sui titoli di tutti gli Stati membri? C’è una contraddizione: non è chiaro il significato degli spread e si indebolisce la loro capacità di disciplinare i debiti. Anche l’esperienza del default greco, non regolato e molto disordinato, dovrebbe far riflettere sulla necessità di ammettere senza ipocrisie la possibilità che uno Stato dell’eurozona dichiari fallimento e adottare le regole per rendere la ristrutturazione del suo debito meno costosa possibile, per lo Stato debitore, per i detentori dei suoi titoli e per la stabilità dell’eurozona. La possibilità di una ristrutturazione ordinata disciplinerebbe non solo i governi debitori ma anche i Paesi creditori e chi investe in titoli di Stato, incentivando una più realistica valutazione dei rischi che corre.
La disciplina di mercato tende però a essere discontinua e disordinata: a volte arriva in ritardo e tollera indebitamenti eccessivi senza reagire; a volte è troppo violenta, cavalcata da speculatori che la esasperano conducendo i tassi a livelli incoerenti con l’effettiva entità e sostenibilità dei debiti. È già successo, per esempio, nel 2011-2012 e per limitarne i gravissimi danni è servito il famoso whatever it takes di Mario Draghi. Ma i miracoli non si ripetono e, per essere valorizzata, la disciplina di mercato dev’essere guidata ex ante e calmierata ex post.
La miglior guida preventiva è proprio l’attività di monitoraggio e coordinamento degli organi comunitari. Di fatto è quel che avviene, ma la complementarietà fra disciplina amministrativa e di mercato andrebbe resa più esplicita. Si pensi al caso italiano, oggi: se la Commissione considerasse inaccettabile il bilancio che il prossimo governo presenterà, sarebbero i mercati a farci pagare il costo, fuggendo dai nostri titoli, non certo le sanzioni di Bruxelles.
Per calmierare ex post le conseguenze della disciplina di mercato serve l’intervento di un’istituzione quale il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Osservando le condizioni dei mercati esso dovrebbe avere la possibilità di interventi frequenti e anche incondizionati (cioè senza speciali impegni da parte dei governi emittenti i titoli) per evitare che gli spread abbiano sbalzi eccessivi, disordinati e controproducenti. Perciò il MES andrebbe rafforzato, dotato di un accesso privilegiato alla liquidità generata dalla BCE e guidato da un management indipendente che, ricevuto un mandato di stabilizzazione, lo esegua senza interferenze e veti politici, sulla base di criteri dei quali sia responsabile presso i mandanti. Sarebbe meglio se il MES divenisse un organo pienamente comunitario e non più intergovernativo. Ma l’essenziale è l’indipendenza tecnica del suo management e la possibilità di interventi incondizionati, almeno sui titoli dei Paesi che la Commissione ritenga rispettosi delle condizioni principali poste dalla sua attività di coordinamento. Dopodiché il MES potrà avere, come ha già, il mandato di occuparsi di situazioni più gravi di crisi, di provvedere ad assistenza finanziaria speciale e condizionata, di amministrare fondi europei con finalità diverse dalla gestione delle crisi sovrane, di trasformarsi in un Fondo Monetario Europeo, ed altro ancora. Ma il punto che qui si vuol richiamare è la sua funzione di calmiere della disciplina di mercato, a valle dei mercati e del monitoraggio ex ante della Commissione e del Consiglio.