Negli ultimi mesi la Turchia è stata sotto i riflettori internazionali per il suo ruolo di mediatore tra Russia e Ucraina. Tuttavia, di fronte all’irrigidimento delle posizioni e alla chiusura dei già ristretti spazi negoziali tra le parti in conflitto, l’attivismo diplomatico turco non ha finora portato risultati tangibili. Questo non sembra però scoraggiare Ankara che continua a profondere sforzi e a tenere aperti i canali di dialogo sia con Mosca sia con Kiev, in virtù dei buoni rapporti con entrambe e dei contatti diretti del presidente Recep Tayyip Erdoğan con i suoi omologhi russo e ucraino.
Fino a quando, in un contesto in continua evoluzione, il governo di Ankara riuscirà a mantenere questo difficile bilanciamento tra partner e interessi diversi rimane un interrogativo senza risposta. Per Ankara in ogni caso si tratta di una scelta obbligata. Pur avendo condannato l’invasione russa dell’Ucraina e sostenuto l’integrità e sovranità territoriale del Paese, la Turchia si guarda bene dal compiere azioni, come l’adesione alle sanzioni occidentali, che possano portare a uno strappo con la Russia, suo primo fornitore di gas nonché terzo partner commerciale. Non solo ragioni economiche, ma anche valutazioni e interessi geostrategici, a partire dal mantenimento di un delicato equilibrio di forze nel Mar Nero, spingono Ankara verso una posizione di equidistanza.
Il ruolo chiave della Turchia nella NATO
Al di là degli equilibrismi, la guerra in Ucraina ha dato alla Turchia l’occasione di trovarsi al centro di una intensa attività diplomatica sul piano internazionale. Ciò le ha permesso di riavviare rapporti logorati da frizioni e divergenze, soprattutto con gli alleati occidentali, nonché di uscire dall’angolo in cui è stata negli ultimi anni anche a causa di una politica estera particolarmente assertiva sul piano regionale. Sia da Bruxelles e dalle capitali europee sia da Washington sono giunti sostegno e plauso per l’azione diplomatica di Ankara nel conflitto ucraino, mentre si sono intensificati i contatti tra Erdoğan, perno della mediazione turca, e diversi leader mondiali. Si tratta di un risultato certamente importante per il leader turco in un’ottica di prestigio sul piano internazionale, ma anche di riavvicinamento ai partner della NATO, sebbene molte delle criticità con Stati Uniti ed Europa rimangano irrisolte.
Tuttavia, la ritrovata intensa con l’Alleanza Atlantica – di cui la Turchia è membro dal 1952 – si è infranta di fronte alla richiesta di adesione di Finlandia e Svezia, che il presidente turco ha esplicitamente dichiarato di non sostenere a dispetto del favore di tutti gli altri partner. La dura critica mossa ai due Paesi, e in particolare alla Svezia, è di essere riparo per gruppi terroristici afferenti al PKK – il Partito dei lavoratori del Kurdistan da oltre quarant’anni in lotta armata con lo stato turco – e a FETO, l’organizzazione che fa capo al predicatore islamico Fethullah Gülen, considerato responsabile del tentativo di golpe del 2016. Ankara lamenta non soltanto la mancata estradizione di esponenti dei due gruppi in Turchia ma anche il sostegno della Svezia alle forze curde siriane che controllano il Nord-Est della Siria e che da una prospettiva turca sono considerate come una branca del PKK. Sulla questione curda, la Turchia parla, e neanche molto velatamente, anche agli Stati Uniti, che da anni forniscono supporto finanziario, militare e logistico ai curdi siriani delle Unità di protezione popolare (YPG). Mentre per Washington le forze curde hanno costituito il principale alleato sul terreno nella lotta allo Stato islamico in Siria, per Ankara queste rappresentano invece una minaccia alla sicurezza nazionale, proprio in virtù dei legami con il PKK, nonché una delle principali fonti di tensione con gli Stati Uniti a partire dal 2014.
Se appare chiaro quale sia la contropartita che Ankara richiede ai due aspiranti membri, nel gioco potrebbero entrare anche altri due aspetti: da un lato, la fine dell’embargo alla vendita di armi alla Turchia, adottato da Svezia e Finlandia nell’autunno del 2019 in seguito all’intervento militare turco nel Nord della Siria; dall’altro, la richiesta turca per l’acquisto di nuovi F-16 e l’ammodernamento della flotta attuale cui gli Stati Uniti non hanno ancora dato seguito. Su questo sfondo sembra dunque che, al di là dei toni fermi della retorica ufficiale, ci sia margine negoziale sulla questione anche se resta da vedere quali saranno i termini di un eventuale do ut des.
La situazione interna rimane difficile
In questa fase, lo sguardo di Erdoğan è rivolto anche, e forse soprattutto, al quadro interno dove il presidente sta cercando di riguadagnare ampio consenso in vista delle elezioni del 2023 facendo leva, tra le altre cose, su temi sensibili e condivisi come quello della sicurezza nazionale. Impresa non facile alla luce del deterioramento del quadro economico del Paese, afflitto da un’inflazione galoppante e da una progressiva svalutazione della lira turca.
Già da qualche anno l’andamento dell’economia, un tempo caposaldo della popolarità di Erdoğan, si è trasformato nel suo principale tallone d’Achille. E questo anche in conseguenza delle scelte di politica economica e monetaria poco ortodosse dello stesso presidente. Quest’ultimo, infatti, non ha mancato di esercitare pressioni sulla Banca centrale turca per abbassare i tassi di interesse nella convinzione che tassi bassi contribuiscano, oltre che a stimolare la crescita, a contenere l’inflazione. Nei fatti però il balletto dei tassi e i diversi cambi operati dal presidente al vertice dell’istituzione monetaria turca nel giro di pochi anni hanno avuto l’effetto opposto. Dall’ultimo taglio di cinque punti percentuali del tasso di interesse, portato al 14% lo scorso dicembre, l’inflazione in Turchia è schizzata dal 21,3% di novembre 2021 a circa il 70% di aprile, il livello più alto dal 2002, da quando cioè il partito di Erdoğan è al potere.
Ad aggravare la spirale inflazionistica in Turchia, dove l’aumento dei prezzi al consumo di cibo e bevande non alcoliche sfiora l’89% mentre quello dei trasporti è al 106%, ha contribuito negli ultimi mesi anche il rialzo dei prezzi dell’energia e delle materie prime a livello globale in conseguenza del conflitto in Ucraina che, a sua volta, ha acuito delle tendenze già in atto sui mercati internazionali.
Per un Paese che dipende in larghissima parte dalle importazioni di idrocarburi per soddisfare il proprio fabbisogno energetico va da sé che tutto ciò si traduce in un aumento del deficit della bilancia di conto corrente, problema cronico per la Turchia. Altrettanto evidenti sono le ripercussioni delle scelte economiche e monetarie sulla valuta turca, che nel corso del 2021 ha perso il 44% del suo valore rispetto al dollaro e ha conosciuto un ulteriore deprezzamento nel mese di maggio, quando il cambio lira-dollaro ha sfiorato un picco di 16 a 1. In questo difficile contesto economico, continua a crescere il malcontento nel Paese per la perdita di potere d’acquisto, il deterioramento delle condizioni di vita di ampie fasce della popolazione e, più in generale, per la politica economica del governo, nonostante le diverse misure tampone adottate dall’esecutivo a sostegno dei ceti meno abbienti. Su questo sfondo, recuperare consensi prima della prossima tornata elettorale – sia presidenziale sia parlamentare – rimane la priorità di Erdoğan, consapevole del peso della crisi valutaria nella sconfitta ad Ankara e Istanbul nelle amministrative del 2019. Secondo un recente sondaggio condotto da Metropoll, in una corsa a tre candidati il presidente non riuscirebbe a ottenere il 50% più uno dei voti al primo turno con nessuno dei principali potenziali sfidanti del fronte di opposizione, mentre questi ultimi avrebbero la meglio al secondo turno. Al di là di chi sarà il candidato dell’Alleanza Nazionale, che riunisce sei partiti di opposizione, per le presidenziali del 2023, il percorso che si profila davanti all’attuale leader turco in cerca di una riconferma appare al momento in salita.