La tecnologia del drone è in crescita esponenziale e si prevede che nei prossimi 15 anni il settore dei droni creerà oltre 23mila posti di lavoro negli Usa dove già oggi si contano circa 150 programmi universitari di pilotaggio virtuale.
Drone è sinonimo di fuco, di fannullone e di brusio, ma è anche il nome di quest’oggetto che vola nei cieli del nostro pianeta senza equipaggio umano e che, se armato, è carico di un’inquietante minaccia mortifera. Si tratta di un gioiello di tecnologia dalle straordinarie potenzialità. Basti pensare ai compiti di ricognizione e di sorveglianza che è in grado di svolgere senza porre a repentaglio vite umane: dal pattugliamento al controllo delle emergenze, dagli impieghi in agricoltura e allevamento alla protezione delle specie a rischio, etc.
Ma la fama maggiore se l’è guadagnata soprattutto per gli impieghi militari e in particolare per le sue versioni “armate” nella guerra (americana, ma non solo) al terrorismo di matrice islamica (al-Qaida e suoi alleati, affiliati ed emulatori); e ancor più, in particolare, per la sua specialità di essere divenuto strumento privilegiato di “killeraggi mirati” in giro per il mondo, per usare una locuzione introdotta dagli israeliani nel 2000, e poi entrata nell’uso comune. Se l’è guadagnata anche attraverso anni di crescente e pressoché indisturbato impiego dai tempi della guerra dei Balcani alle operazioni condotte e tuttora in atto nell’area afghano-pakistana, nel Golfo, in Medio Oriente e nel Corno d’Africa.
E sembra avergli giovato l’opacità informativa nella quale è stato ed è tuttora avvolto il triste e tristo seguito di vittime innocenti, cinicamente catalogate come “danni collaterali”. Per non far cenno della discutibile, a dir poco, logica della legittimazione (di una politica) dell’“esecuzione sommaria” in cui si sostanzia di fatto l’uso del drone armato. Ancora oggi del resto non si dispone di dati ufficiali circa il numero delle operazioni (migliaia, sembra) effettuate nei vari teatri della terra e ancor meno dei morti che ne sono stati il risultato. Occorre anzi dire che c'è voluto del tempo prima che cominciassero a percolare dalle riservate stanze delle autorità competenti – stentatamente, molto stentatamente – brandelli di informazioni fattuali e di formulazioni giuridiche.
Eppure sono anni che la questione attira l’attenzione critica degli ambienti internazionali, principalmente americani, impegnati in materia di diritti della persona. Per anni essa ha suscitato ruvidi quesiti anche in sede Nazioni Unite, principalmente a opera del Rapporteur per le esecuzioni arbitrarie, sommarie o extragiudiziali. Ruvidi in quanto vere e proprie denunce: dalla constatazione che la funzione del drone era quella di killeraggio mirato – e non di mezzo di combattimento, come dichiarato – e che era arduo giustificare una tale funzione ai sensi del diritto internazionale. Si era anche chiesto di specificare le motivazioni di fondo per le quali, con il drone, si privilegiasse l’opzione dell’uccisione piuttosto che quella della cattura e si reclamava di rendere di pubblico dominio sia il numero di civili uccisi che le misure adottate per prevenire tali morti.
Non stupisce quindi il relativo rumore suscitato dalla pubblicazione di alcune ricerche americane che, seppur limitate al solo territorio pakistano, hanno offerto uno spaccato allarmante: dal 2004 al 2012 sarebbero stati uccisi con droni tra i 474 e gli 881 civili (176 bambini) su un totale di oltre 3.000 persone colpite; il rapporto tra terroristi/supposti tali e innocenti sarebbe stato da 1 a 10 e del solo 2% la quota dei militanti di “alto livello” eliminati. Queste operazioni avrebbero favorito il reclutamento di nuovi militanti, cioè l’opposto dell’obiettivo perseguito non avrebbero creato un contesto di maggiore sicurezza. Questi killeraggi risultano in ogni caso da condannare perché destinati a minare le fondamenta della legalità internazionale e a creare pericolosi precedenti.
Anche queste prese di posizione sarebbero rimaste circoscritte se Obama, grande fautore della strategia dronica, non avesse deciso di nominare a capo della Cia John Brennan, l’architetto-chiave della medesima, suscitando un vivace dibattito ispirato forse più da intenti ostruzionistici che etici e provocando la pubblicazione di un rapporto che ha gettato un parziale fascio di luce sulla materia.
Si conferma comunque che per Washington questi “killeraggi mirati” sono giustificati sia dal diritto interno sia da quello internazionale. Dal primo, in forza della legge Authorization for Use of Military Force (Aumf) del 2001 che autorizza il presidente a usare «ogni necessaria e appropriata forza» contro i responsabili degli attacchi terroristici del 9/11 in quella che è stata definita una vera e propria guerra contro il terrorismo e dunque contro chi lo pratica o è supposto praticarlo. Dal secondo, ai sensi dell’art.51 della Carta delle Nazioni Unite, che contempla il diritto all’auto-difesa con anche la prerogativa dell’unilateralità, cioè il preventivo assenso del paese interessato se giudicato nolente o inadeguato.
Un quesito s’impone: poiché i paesi che dispongono o si preparano a disporre di questi strumenti e ad armarli – come l’Italia che ne possiede e ne produce – già molti e non tutti in rapporti amichevoli, aumenteranno ancora, si accrescerà inesorabilmente il rischio imitativo. Cioè la possibilità che questi stessi principi vengano invocati per legittimarne l’uso dei medesimi contro “nemici” obliquamente identificati come tali. Si tratta di una prospettiva inquietante soprattutto se proiettata in un futuro di crescente frammentarietà della governance internazionale. E sarebbe improvvido rinviarne la messa all’ordine del giorno, nella speranza che, col tempo, sarà la pressione della sua potenziale perniciosità a propiziare la formazione di una piattaforma di regole d’impiego nella quale la Comunità internazionale – o una sua parte qualificata – si possa riconoscere.
Ma il cammino è impervio: già tra membri della sola Europa si registra una profonda divisione che va dal versante progettuale e produttivo a quello politico-securitario. Sussiste poi una sostanziale differenza tra Europa e Usa (con Israele) sul fondo giuridico-politico-concettuale della questione. E non è poca cosa visto il ruolo preponderante, industriale e tecnologico, di questi ultimi a livello internazionale. Poi vi sono i cosiddetti Brics fra cui primeggiano Russia e Cina.
Questione delicata, dunque. Da portare alla ribalta dell’attenzione politica
* Armando Sanguini è stato ambasciatore d’Italia in Tunisia dal 1998-2003.