La narrativa del COVID-19 ha mutuato fin dall’inizio il linguaggio bellico. La sfida multiforme lanciata dall’emergenza pandemica ha riecheggiato da subito scenari di guerra: dai bollettini quotidiani che riportano la conta dei morti considerati alla stregua di caduti in battaglia, alle misure di contenimento volte a scongiurare gli attacchi del nemico invisibile, alle corsie degli ospedali rappresentate come trincee, in cui gli operatori sanitari sono raffigurati come guerrieri o eroi in lotta contro il virus. Ebbene, oggi il vero fronte decisivo è la conquista di un vaccino efficace contro il SARS-CoV-2. Su tale linea di fuoco si fronteggiano le case farmaceutiche che spingono per blindare i risultati della ricerca nelle legittime logiche privatistiche del monopolio brevettuale versus l’istanza di gestire l’eventuale vaccino come risorsa accessibile a tutti alla luce delle esigenze comuni e dei finanziamenti pubblici erogati per lo sviluppo di un vaccino sicuro ed efficace quali quelli, ad esempio, dell’Unione europea.
Le posizioni internazionali
Il primo schieramento, basa le sue argomentazioni sul fatto che la ricerca di un vaccino costituisce un processo altamente complesso, caratterizzato da lunghi tempi di sviluppo e di produzione, in cui la maggior parte dei potenziali prodotti immunizzanti non supera la fase delle sperimentazioni cliniche. Così, normalmente, le società farmaceutiche orientano le proprie ricerche in funzione della probabilità di ottenere un vaccino che, nel soddisfare gli standard di qualità, sicurezza ed efficacia necessari per ottenere l’autorizzazione, sia redditizio in base alle proiezioni della domanda. Se è vero – come è vero – che per coprire il fabbisogno mondiale di vaccino contro il SARS-CoV-2 sarà necessario produrne miliardi di dosi, senza peraltro impattare negativamente sulla produzione di altri farmaci essenziali, occorre anche considerare che riuscire in un’impresa del genere in tempi brevi (si parla di 12-18 mesi rispetto ai 10 anni necessari in media per lo sviluppo di un vaccino) implica altresì che le prove cliniche siano eseguite, da un lato, investendo in parallelo nelle capacità di produzione e, dall’altro, assicurandosi le materie prime, per consentire che la produzione possa iniziare senza soluzione di continuità dall’esito positivo di tali prove. Questa triade di fattori (la necessità di giungere a un risultato in tempi brevi, gli elevati costi iniziali e l’alto tasso di probabilità di insuccesso, pari, secondo le stime del settore, al 99%) comportano che investire nella ricerca di un vaccino contro il COVID-19 sia una decisione piena di incognite per gli sviluppatori che dunque, legittimamente, rivendicano un ritorno economico in caso di riuscita degli investimenti, ossia l’esercizio del diritto esclusivo di sfruttamento sul mercato.
Il secondo gruppo, pone l’accento sul fatto che la pandemia in atto è una sfida globale che interessa tutte le regioni del mondo, sicché nessun territorio potrà dirsi sicuro fino a quando il virus non sarà sotto controllo ovunque, e dunque l’unica risposta definitiva è lo sviluppo e la produzione di un vaccino sicuro ed efficace da rendere accessibile a ogni individuo su base universale. A tal fine è stata lanciata a Ginevra, lo scorso 24 aprile, sotto l’egida dell’OMS, l’iniziativa ACT – Access to Covid-19 Tools Accelerator per sostenere su base multilaterale il processo di accelerazione dello sviluppo degli strumenti di diagnostica e terapia contro il COVID-19. Nella conferenza stampa del 24 agosto il Direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha annunciato che 172 Paesi hanno risposto positivamente al suo appello e hanno aderito al “braccio operativo” di ACT, ossia il COVAX Global Vaccines Facility, che ha l’obiettivo di fornire almeno 2 miliardi di dosi di vaccini sicuri ed efficaci contro COVID-19 entro la fine del 2021 (di cui almeno la metà destinate gratuitamente o a un prezzo poco più che simbolico a 92 Paesi ed economie a basso e medio reddito la cui sommatoria dei cittadini corrisponde al 50% della popolazione mondiale). A oggi, questo portafoglio dinamico, che comprende nove vaccini in fase avanzata di sperimentazione, oltre a quattro trattative in corso e nove vaccini in uno stadio di valutazione a lungo termine, costituisce il meccanismo coordinato a livello globale per l’approvvigionamento congiunto e la condivisione del rischio tra più vaccini, finalizzato a consentire a tutti i Paesi aderenti di accedere a qualsiasi vaccino si dimostri sicuro ed efficace.
Si segnala però un ulteriore schieramento che annovera talvolta membri a scalvalco fra i primi due: quello che persegue la guerra contro il COVID-19 sotto la bandiera del nazionalismo sanitario. Secondo quanto riportato recentemente in un articolo della rivista scientifica Nature sono già più di 2 miliardi le dosi di vaccino anti-COVID che i Paesi più ricchi si sono assicurati tramite accordi commerciali. In pole ci sarebbe il Regno Unito che si sarebbe già assicurato un totale di 340 milioni di dosi, il che, sulla base della popolazione britannica, corrisponde all’equivalente di cinque somministrazioni per ogni cittadino. In seconda posizione gli Stati Uniti, che già dalla metà del mese di agosto si sono assicurati 800 milioni di dosi di almeno sei vaccini in via di sperimentazione oltre a un’ulteriore opzione per l’acquisto di un altro miliardo di dosi, nonché, a seguire, l’Unione Europea – a livello aggregato – e il Giappone che hanno prenotato centinaia di milioni di dosi di vaccini.
A oggi, secondo gli ultimi dati disponibili, i vaccini contro il COVID-19 in sperimentazione in tutto il mondo sono 165 di cui 32 nella fase di sperimentazione sull’uomo e solamente 6 nell’ultima fase di sperimentazione, la terza, volta a stabilire la reale efficacia di un vaccino.
Produzione e distribuzione dei vaccini: quadro giuridico
Ebbene, quali sono le possibilità di uno sfruttamento diffuso su base universale di un eventuale vaccino efficace e sicuro contro il COVID-19 frutto di tali sperimentazioni? Detto in altri termini, nel trade off fra tutela dei diritti della proprietà intellettuale legati al brevetto e la tutela della sanità globale quali sono gli strumenti giuridici che gli Stati potrebbero attivare?
Un primo meccanismo è quello delle licenze obbligatorie ex art. 31 del Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights (TRIPs) che prevede il diritto degli Stati membri del World Trade Organization (WTO) di includere nella loro legislazione una disposizione per l’uso del brevetto senza autorizzazione del titolare per facilitare l’accesso ai farmaci (la cosiddetta “licenza obbligatoria”), in circostanze di emergenza e altre situazioni non convenzionali. L’art. 5, c), della Dichiarazione di Doha del 2001, ribadisce che gli Stati membri del WTO hanno «the right to determine what constitutes a national emergency or other circumstances of extreme urgency, it being understood that public health crises, including those relating to HIV/AIDS, tuberculosis, malaria and other epidemics, can represent a national emergency or other circumstances of extreme urgency». Un Paese può quindi concedere tale licenza a un’agenzia pubblica o a un produttore di farmaci generici, consentendogli di copiare un farmaco senza il consenso della società che detiene il brevetto.
Alcuni Paesi si sono preventivamente mossi in questa direzione. Per esempio, il Parlamento cileno, il 17 marzo 2020, con 127 voti a favore e zero contrari ha approvato una risoluzione con cui si stabilisce che il COVID-19 costituisce una giustificazione sufficiente per la concessione delle licenze non volontarie previste dall’articolo 51 n. 2 della Legge sulla Proprietà Industriale n. 19.039 per facilitare l’accesso a vaccini, farmaci, diagnostica, dispositivi, forniture e altre tecnologie utili per la sorveglianza, la prevenzione, l’individuazione, la diagnosi e il trattamento delle persone infettate dal SARS-CoV-2, per motivi di salute pubblica e/o di emergenza nazionale, come previsto dalle norme internazionali, in particolare dalla Dichiarazione di Doha sull’Accordo TRIPs e sulla Salute Pubblica. Subito d’appresso, il 20 marzo 2020 l’Assemblea Nazionale dell’Ecuador ha chiesto al Presidente della Repubblica e al Ministro della Sanità Pubblica, di includere nella dichiarazione dello stato di Emergenza Sanitaria, i meccanismi amministrativi e tecnici per consentire l’uso pubblico non commerciale, l’istituzione di licenze obbligatorie di brevetti, l’accesso ai dati dei test e ad altre tecnologie, inter alia, per la disponibilità di vaccini relativi al COVID-19 al fine di garantire il diritto alla salute attraverso l’accesso gratuito o a prezzi accessibili, per evitare speculazioni sui prezzi e sulle carenze in coordinamento con gli enti pubblici competenti. Queste strategie sono talvolta risultate vincenti: per esempio, la casa farmaceutica AbbVie ha autorizzato Israele ad acquistare propri farmaci da fornitori di altri Paesi in esito all’approvazione della licenza per una copia generica della pillola di Kaletra HIV volta a contrastare il Coronavirus, sicché la ventilata minaccia di una licenza obbligatoria ha spinto un produttore di farmaci ad ampliarne l’accessibilità attraverso la flessibilità offerta dal sistema delle cosiddette importazioni parallele.
Purtuttavia, il meccanismo delle licenze obbligatorie, da un lato, copre esclusivamente i brevetti e non anche le ulteriori informazioni proprietarie estremamente importanti per un efficace sistema produttivo su larga scala dei miliardi di dosi necessarie di vaccino (i cosiddetti "segreti commerciali") e, dall’altro, se è una via agevolmente percorribile per la produzione di farmaci che si basano su poche molecole, risulta più impervia ed erta nel caso di vaccini, ben più complessi.
Una seconda modalità, a contenere e limitare le regole internazionali della proprietà intellettuale nel quadro delle misure di contrasto all’emergenza COVID-19, e finalizzata a non limitare l’accesso a vaccini, farmaci, cure e strumentazioni medicali, consiste nell'espropriazione. In questo caso il titolare del brevetto perde il monopolio legale dello sfruttamento del vaccino perché sacrificato sull’altare della pubblica utilità. L’emergenza pandemica in corso rappresenta sicuramente una situazione in cui sembra opportuno dare priorità alla salute collettiva a scapito del profitto di un singolo imprenditore, ma questa soluzione si presta a essere un deterrente negli investimenti nella ricerca perché l’indennità che spetta al titolare del brevetto non è sufficiente a compensarlo dalla perdita delle potenzialità reddituali date dal vantaggio competitivo della sua privativa. Inoltre, i provvedimenti di espropriazione condividono con il meccanismo delle licenze obbligatorie un’ulteriore criticità, ossia il complicato e complesso iter procedurale necessario per attivarli.
Una terza via, verso la quale si stanno orientando Regno Unito e Canada, consiste infine nella depenalizzazione dello sfruttamento abusivo dei brevetti legati al Coronavirus. In pratica, si tratta di “sospendere” il reato di contraffazione per i prodotti legati alla gestione dell’emergenza, come, per esempio, è stato auspicato nella nota vicenda di Brescia in cui un gruppo di volontari, facenti parte di una società specializzata in additive manufacturing, ha fabbricato le valvole per i respiratori, necessari per tenere in vita i pazienti affetti da COVID-19 ricoverati in terapia intensiva, mediante stampa 3D, senza il consenso del titolare del brevetto – rectius: in spregio al suo espresso rifiuto –, dopo aver ricavato in autonomia le specifiche tecniche. Ebbene, è di palmare evidenza come simili provvedimenti si traducono in una sorta di “tana, liberi tutti” che potrebbe dare il via a un Far West sanitario, oltre a innescare una serie di procedimenti attivati dalle case farmaceutiche che citerebbero in giudizio, con buone ragioni, i Paesi che dovessero autodeterminarsi in tal senso.
È dunque necessario cercare di evitare un effetto domino nazionalistico-sanitario, in cui i governi si fronteggiano quali antagonisti in competizione per assicurarsi una corsia preferenziale a qualsiasi soluzione promettente, provando a trarre spunto dalla lezione (forse la più importante) che la pandemia in atto ci ha impartito: la globalizzazione della vulnerabilità richiede una solidarietà di pari magnitudo. Detto in altri termini occorre che la comunità internazionale bypassi la visione dei brevetti quale barriera insormontabile all’accesso alla conoscenza, attraverso una strategia coordinata di salute pubblica comune, negoziando con le aziende da una posizione di forza le condizioni del prezzo del vaccino affinché possa essere considerato un farmaco essenziale e dunque abbia un costo che prescinda dal value-based price model, eterodeterminato da una decisione unilaterale delle case farmaceutiche.