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Commentary

La guerra siriana è già in Libano

29 Agosto 2013

È opinione comune tra gli analisti che un intervento militare internazionale in Siria destabilizzerebbe il vicino Libano. Ma viene subito da obiettare che il Libano è già destabilizzato. Il devastante scontro tra Assad e i suoi oppositori ha abbracciato il Paese dei cedri da oltre un anno. Da quando, era il maggio 2012, si registrarono i primi episodi di violenza a Beirut, ma soprattutto a Tripoli, roccaforte sunnita nel Libano del nord, quindi confessionalmente vicina alle posizioni anti-Assad. L’impennata delle tensioni si ebbe nell’ottobre seguente, a causa dell’uccisione del generale Wissam al-Hassan: sunnita, uomo di potere nell’apparato di sicurezza beirutino, eroe agli occhi di tutta la popolazione. La sua eliminazione resta ancora orfana di paternità.

Da allora, fino allo scorso maggio, il Libano ha attraversato un momento di drôle de guerre. Mentre in Siria entrambi gli schieramenti si macchiavano dei crimini più efferati, i libanesi – amici o nemici di Assad che fossero – osservavano. Negli ultimi tre mesi però, le cose sono cambiate. Lo confermano gli scontri non più sporadici, e non più solo a Tripoli, che cadenzano la cronaca libanese. Lo dimostrano gli attentati, contro moschee sunnite, piuttosto che nei quartieri sciiti di Beirut. È evidente che le frange salafite ed Hezbollah, così come si stanno combattendo in Siria, hanno dissotterrato l’ascia di guerra anche a casa. Anche in quel Libano che, secondo le buone intenzioni espresse dall’intera classe politica nazionale solo un anno fa, avrebbe dovuto essere preservato dalle violenze d’oltrefrontiera.

Ma a Beirut la politica è uscita del tutto dai binari del dialogo. A marzo, il governo Mikati si è dimesso. Il vuoto di potere, coincidente con la fine della legislatura, non ha fatto da sprone virtuoso. Anzi, il presidente Michel Suleyman si è visto costretto a rimandare di un anno le elezioni per il rinnovo dell’Assemblea nazionale. Senza comunque la certezza che, tra dodici mesi, il contesto interno e regionale sia ottimale per il voto.

Con o senza intervento straniero, la guerra siriana è già in casa libanese. Nell’ombra restano le ripercussioni. Certo è che un raid occidentale non tornerebbe risolutivo per l’instabilità del Paese dei cedri.

L’esercito israeliano, stando al suo Stato maggiore, paventa «scenari estremi». È bene ricordare però che Tzahal resta un agente attivo in Libano. In caso di attacco, la blue line – il confine fittizio a nord di Israele – si trasformerebbe in una Armageddon. È già successo in passato, nel 2006 per esempio, che Hezbollah e le truppe israeliane sfogassero il loro odio reciproco nelle valli del Libano del Sud. Tra gli scenari prevedibili si possono elencare raid aerei preventivi, su ordine del governo Netanyahu, operazioni di commando per opera delle forze speciali di ambo gli schieramenti, attentati, sequestri. Per quanto la primavera araba e con essa la crisi siriana siano una novità in Medio oriente, il modus operandi di Hezbollah e di Israele non cambia.

Così come non muta l’atteggiamento dell’Iran. Giorni fa, il quotidiano francese Libération definiva la Siria «la 32esima provincia iraniana». Conoscendo la linea editoriale della testata, è possibile che l’affermazione abbia origine direttamente a Teheran. Da qui è breve il passo a che l’Iran, con un attacco a Damasco, si senta praticamente bombardato in casa. E quale migliore testa di ponte se non quella libanese troverebbe per reagire? Perché se la Siria è una provincia, il Libano per Teheran è la sua sponda mediterranea.

Il problema è che il Paese dei cedri costituisce anche il retroterra naturale dei salafiti. Non essendo chiara la natura dell’intervento di Stati Uniti e alleati, si può comunque formulare un’ipotesi di fuga di massa dalla Siria per difendersi dai Tomahawk. Fuga che coinvolgerebbe sia i profughi, che in Libano già non sono pochi, sia i ribelli. Anch’esso è uno scenario già visto. Ai tempi dell’invasione sovietica in Afghanistan, i mujaheddin usavano il Pakistan come rifugio. Mentre i Vietcong se ne andavano in Cambogia. Il Libano quindi risulta essere un agevole bacino di decompressione dalle fatiche di guerra. Nel mentre che qualcun altro conduce i propri bombardamenti aerei.

Infine l’Onu. Un attacco occidentale comprometterebbe seriamente la credibilità della comunità internazionale presso l’opinione pubblica libanese. Meglio detto: la missione Unifil, al comando del generale italiano Paolo Serra, rischierebbe di essere messa sotto riflettori sensibilmente critici. Perché se il raid ricevesse il placet dell’Onu, i caschi blu, in quel Libano del sud abitato solo da sostenitori di Assad, verrebbero immediatamente squadrati come nemici. Senza quell’ok invece, Unifil passerebbe come il rappresentante di un Palazzo di vetro debole a tal punto da non riuscire a evitare il peggio. L’opzione più probabile è la seconda. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti è più facile che si muovano senza ordini superiori, a causa del veto di Cina e Russia. In ogni caso, per Unifil un attacco in Siria non torna vantaggioso. Nei villaggi libanesi, il soldato straniero, soprattutto quello italiano, gode di stima e affetto. In un momento di tensione emotiva, c’è il rischio che questo rapporto di amicizia collassi improvvisamente. 


* Antonio Picasso, giornalista freelance


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