In attesa degli sviluppi di un’azione militare a guida americana contro la Siria, la situazione sul terreno rimane complessa e frammentata.
Martedì scorso il governo regionale del Kurdistan ha smentito l’ipotesi di un intervento armato all’interno degli attuali confini siriani a sostegno delle formazioni curde locali. La dichiarazione diffusa dalla Reuters contrasta con il messaggio pubblicato sabato 10 Agosto dal presidente regionale Masoud Barzani, che aveva parlato di un intervento “con tutte le forze” in difesa dei civili curdi dopo le voci di pesanti scontri tra milizie curde e salafite intorno alla cittadina di Tall Abyad. Oltre al timore di una (ulteriore) regionalizzazione del conflitto siriano, la smentita del governo regionale del Kurdistan è probabilmente dovuta anche al fatto che l’accordo inter-curdo siglato a Erbil il 12 Luglio 2012 non ha del tutto sanato le rivalità tra le diverse fazioni. Il Comitato supremo curdo, che ha la sua sede a Kobanê/’Ayn al-‘Arab, rimane diviso in due blocchi principali. Da una parte, il Consiglio nazionale curdo (a sua volta una coalizione formata nel 2011 da diversi gruppi e partiti), sostenuto da Barzani e dal governo regionale del Kurdistan; dall’altra, il Partito di unità democratica (PYD), che rappresenta di fatto l’estensione del PKK sul territorio siriano. L’antagonismo tra PYD e Consiglio nazionale curdo (e, in particolare, il Partito democratico curdo) nasce da ragioni politiche, ma anche da linee di frattura di tipo sociale e familiare che attraversano la componente etnica curda in Siria. L’accordo del 2012 ha posto le aree in mano alle fazioni curde sotto il controllo nominale del Consiglio supremo, in cui tutte le fazioni sono rappresentate; ma la sua milizia, chiamata Unità di protezione popolare (YPG), rimane di fatto largamente sotto il controllo del PYD.
Restano controversi i rapporti tra Comitato supremo curdo e Consiglio nazionale siriano. Da una parte, pesa infatti la posizione nettamente antiturca del PYD. Dall’altra parte, il Consiglio nazionale curdo invoca una larga autonomia territoriale e, sulla base del modello del Kurdistan iracheno, punta a una politica dei fatti compiuti, consolidando sul terreno il controllo di una notevole parte del nord-est della Siria; il Consiglio nazionale siriano sembre invece disposto solo a una forma più mite di devoluzione dei poteri alle amministrazioni periferiche all’interno del sistema politico post-Assad, cercando allo stesso tempo di sottolineare la retorica dell’unità nazionale.
Le caratteristiche dello scenario politico alternativo a quello del regime baathista sono, in generale, tutt’altro che chiare poiché, al di là della contrapposizione binaria tra “lealisti” e “ribelli”, l’opposizione appare fortemente variegata.
All’interno della Coalizione nazionale delle forze di opposizione (di cui fanno parte il Consiglio nazionale siriano, il Consiglio nazionale curdo, l’Esercito siriano libero e diversi altri rappresentanti locali) la situazione non è molto chiara.
Dopo le dimissioni di Moaz al-Khatib, il 6 Luglio scorso è stato eletto il nuovo presidente della coalizione. Esponente della confederazione tribale degli Shammar, Ahmad al-Jarba ha vinto di misura sull’industriale Mustafa Sabbagh, sostenuto dal Qatar. Il primo ministro della Coalizione, Ghassan Hitto, un tecnico informatico vissuto fino al 2012 negli Stati Uniti, è stato eletto di misura, e non senza discussioni, il 18 Marzo, ma ha rassegnato le sue dimissioni l’8 Luglio.
Sul fronte militare, non esistono solo le contrapposizioni tra “moderati” e “islamici radicali”, ma anche tra le diverse componenti di ispirazione salafita. Il Fronte islamico di liberazione della Siria (che comprende gruppi che si ispirano all’ideologia dei Fratelli musulmani e gruppi salafiti) mantiene una struttura distinta dall’Esercito siriano libero, mentre il Fronte islamico siriano (che riceve aiuti da influenti personalità in Arabia Saudita, Kuwait e Qatar) rappresenta una alleanza di formazioni salafite. All’interno del Fronte al-Nusra, il capo storico Abu Mohammad al-Golani ha riaffermato la sua fedeltà al capo di al-Qa’ida, Ayman al-Zawahiri, mentre una fazione di minoranza si è schierata con Abu Bakr al-Baghdadi, che nel Giugno scorso ha annunciato la fusione del Fronte al-Nusra con le formazioni qaediste dell’Iraq nel nuovo gruppo chiamato Stato islamico di Iraq e al-Sham.
Nel momento in cui pare che la parola passi alle armi a livello internazionale, molte fonti di informazione offrono mappe etnico-confessionali e spiegazioni basate sulla frizione tra sunniti e alawiti. Anche se corrette, queste analisi rischiano di eclissare le ragioni politiche di un conflitto che poi ha finito per intersecarsi con le identità, le paure e gli antagonismi di tipo etnico e confessionale. Queste sono forse considerazioni da dibattito accademico di limitato interesse per gli abitanti delle periferie di Aleppo o di Douma, ma un dato può forse essere sottolineato. Il paese che voleva esportare e imporre la sua “pax syriana” in Libano rischia, per una tragica ironia della storia, di rimanere invischiato in un processo di libanizzazione, di fronte al quale un intervento militare anglo-americano, oltre che presentare più incognite che soluzioni, rischia di non offrire una risposta, a meno di essere così ampio e potente da provocare il rovesciamento di Bashar al-Assad. Né, d’altra parte, sembra possibile presagire a tempi brevi una versione siriana degli accordi di Ta’if, dal momento che, almeno in apparenza, nessuna delle fazioni coinvolte nel conflitto siriano sembra essere sufficientemente esausta per poter accettare un compromesso alla libanese sulla base della formula “né vincitori né vinti”.
* Francesco Mazzucotelli, Università Cattolica Milano
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