Il 4 aprile sarà trascorso un anno esatto dall’attacco delle truppe dell’Esercito Nazionale Libico (ENL) guidato dall’ex generale di Muammar Gheddafi, Khalifa Haftar, contro la città di Tripoli. Un anno di assedio, di bombardamenti sulla popolazione civile e sulle infrastrutture della città, di violenze che hanno lasciato il segno sulla popolazione, radicalizzando posizioni politiche e incrinando i legami sociali.
La resistenza delle milizie di Tripoli, formalmente fedeli al Governo di Accordo Nazionale (GNA) presieduto da Fayez Serraj, e di quelle della città di Misurata, è stata sufficiente a respingere gli aggressori e determinare una situazione di stallo che di fatto ha visto pochi mutamenti di fronte dai primi giorni dell’attacco.
I paesi sostenitori del generale Haftar hanno, in aperta violazione dell’embargo sancito dall’ONU, continuato a rifornire di materiale bellico le truppe dell’ENL, e negli ultimi mesi del 2019 sono giunti in Libia a sostegno dell’ENL mercenari sudanesi e ciadiani. L’impatto più dirompente sul fronte però lo hanno provocato i mercenari russi a sostegno delle forze di Haftar. Meglio equipaggiati ed estremamente ben addestrati hanno condotto devastanti incursioni contro le forze del GAN, tanto che ai primi di dicembre Serraj dichiarava in privato che la resistenza attorno a Tripoli stava per cedere.
A salvare la situazione per i difensori di Tripoli, ha però provveduto il tempestivo intervento della Turchia, inviando mezzi e uomini a sostegno delle forze del GAN e provvedendo a riequilibrare il rapporto tra le forze sul campo, determinando tuttavia l’attuale situazione di stallo e di bassa conflittualità.
Non si registrano risultati rilevanti neanche sul fronte della ricerca di una soluzione politica condotta dall'ormai ex Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ghassan Salamè. Tutti i tentativi e le iniziative da lui intraprese sono risultate vane: gli incontri personali, le conferenze internazionali, i summit di leader mondiali. Ed è così che uno sfiduciato e disilluso Salamè ha rassegnato le dimissioni ai primi di marzo del 2020.
La credibilità ed il prestigio delle Nazioni Unite sono certamente da annoverare tra le vittime della crisi libica. Appaiono futili ed opportunistiche allo stato attuale le molte dichiarazioni dei politici occidentali che in Libia sia possibile solo una soluzione politica, mentre è evidente che per renderla possibile sia necessario prima definire una soluzione militare. La Conferenza di Berlino tenutasi nel novembre del 2019 , con la sua lunga lista di raccomandazioni e direttive, costituisce la prova finale del fallimento di qualsiasi iniziativa politica che non tenga prioritariamente conto dell’effettiva situazione sul territorio.
A conferma di ciò, a poche ore dalla conclusione della conferenza di Berlino, gli Emirati Arabi Uniti hanno organizzato un ponte aereo per rifornire le truppe di Haftar, mettendole in condizione di lanciare l’offensiva finale contro Tripoli.
Al tempo stesso, sul fronte opposto la Turchia ha adottato la medesima strategia, inviando un centinaio di propri ufficiali e specialisti per organizzare al meglio la resistenza e l’addestramento dei miliziani del GNA, rivelandosi questa mossa ancor più decisiva del mero invio di alcune centinaia di miliziani siriani.
La fornitura di apparati contraerei è stata in particolare fondamentale per riequilibrare il controllo dello spazio aereo, costringendo a terra le forze aeree di Haftar, che sino ad allora con i loro incontrastati attacchi avevano assicurato un forte vantaggio alle forze di terra dell’ENL.
La crisi libica si trova adesso ad un punto di stallo, sia sul campo tra le contrapposte forze militari, sia – seppur in modo diverso – sul fronte politico-diplomatico internazionale, dove ambiguità e opacità tese a coprire interessi non legittimi determinano un quadro di difficile soluzione.
Una vittoria decisiva delle forze del generale Haftar, sebbene possibile, non risolverebbe comunque la crisi libica, dove più della metà degli abitanti è apertamente ostile al generale, facendo facilmente presagire la possibilità di una forte resistenza sotto forma di guerriglia o di terrorismo in caso di una sua vittoria. Ciò provocherebbe solo ulteriore instabilità non solo ad ovest ma anche ad est, dove il consenso a Haftar è ben meno omogeneo di quanto la sua propaganda voglia cercare di imporre ai media internazionali.
Una netta vittoria militare del GNA, con la disfatta dell’esercito di Haftar e il crollo del suo dominio, pur essendo possibile è altamente improbabile, non solo per il forte sostegno dei suoi potenti alleati regionali ma anche perché un’avanzata dei misuratini e dei tripolini verso est provocherebbe una contraria reazione da parte delle tribù e degli abitanti della parte orientale del paese. Questo scenario rappresenterebbe la fine dell’ideale unitario della Libia e la consacrazione della sua partizione di fatto in due – o addirittura tre – entità autonome.
Le potenze occidentali possono contribuire in modo decisivo a risolvere la situazione solo determinando sul campo un equilibrio militare tale da far accettare ai sostenitori di Haftar che l’opzione di una vittoria militare sia di fatto impossibile, e che quindi per garantire il più possibile i propri interessi non vi sia alternativa ad un negoziato leale e diretto tra le parti. È altamente probabile che a quel punto non saranno né Serraj né Haftar a condurre un negoziato, lasciando spazio a nuovi attori più rappresentativi e meno polarizzanti, capaci di rappresentare le forze che hanno realmente peso sul territorio.
L’attuale stallo nel rapporto di forze tra il generale Haftar e il GNA di Serraj non produrrà un risultato risolutivo perché ognuna delle parti è ancora convinta di poter prevalere sull’altra, e un eventuale ulteriore sostegno all’ENL non determinerebbe alcun mutamento a favore di Haftar. Al contrario, un più deciso sostegno al GNA di Serraj si tradurrebbe nella certezza dell’impossibilità di vittoria per Haftar, costringendo lui e i suoi alleati ad accettare i termini di un serio ed onesto negoziato.