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Focus Mediterraneo Allargato n.13
La Libia a un anno dall’offensiva di Haftar
Federica Saini Fasanotti
23 maggio 2020

La Libia è scossa da più di un anno da una guerra civile combattuta per iniziativa del maresciallo di campo Khalifa Haftar che, il 4 aprile 2019, ha iniziato con il suo Libyan National Army (Lna) un lungo assedio contro Tripoli e quelle milizie che, ormai da anni, sostengono con più o meno convinzione il primo ministro del Governo di accordo nazionale (Gna) Fayez al-Serraj, insediatosi dopo gli accordi firmati nel dicembre 2015 a Skhirat, in Marocco. La scusa ufficiale, dietro cui si è trincerato il maresciallo di campo, riguarda la presenza di gruppi salafiti estremisti nella capitale. Va però sottolineato che all’interno del Lna sono molte le fronde facenti riferimento al madkhalismo saudita, come, ad esempio, la milizia Subul Al-Salam, o la brigata Al-Wadi, il battaglione Tawhid e la brigata Tariq Ibn Ziyad. 

Il conflitto ha mantenuto nei mesi un profilo molto particolare: pochi uomini sul terreno (qualche migliaio da entrambe le parti); affiancamento di gruppi mercenari (siriani per i tripolini, mentre sudanesi e russi in supporto del Lna); larghissimo uso di droni di fattura cinese e riforniti da Turchia ed Emirati Arabi Uniti. Una rivisitazione quindi del concetto di Low Impact Conflict (Lic) che si basa molto, per sua natura, sull’arsenale bellico a disposizione e sulle capacità operative degli uomini che combattono a terra. Nelle ultime settimane, il peso della bilancia sembra essersi spostato a vantaggio del Gna, costringendo Haftar a una mossa politica che ha lasciato spiazzati molti anche all’interno del suo schieramento – primo fra tutti il Presidente della l’House of Representatives (HoR) Aguila Saleh,[1]rifugiatosi nei suoi luoghi di origine, nei pressi di Derna – e cioè alla dichiarazione televisiva di un colpo di stato in atto che lo avrebbe reso rais di tutti i cittadini libici. Era il 27 aprile 2020.

 

Quadro interno

Il 25 marzo 2020 il Gna, in risposta ai continui attacchi da parte del Lna – a discapito della richiesta di tregua emersa dalla Conferenza di Berlino del 19 gennaio scorso – ha lanciato la controffensiva Peace Storm. Sempre quel giorno, le forze del Gna, coadiuvate dai droni turchi Bayraktar TB2, hanno puntato sulla base aerea di al-Watiya,[2]situata a 60 km a sud di Giado, sulle montagne Nafusa e verso al-Wishka, a est di Misurata, catturando uomini (per lo più mercenari e advisors, alcune voci riferiscono anche francesi ed emiratini[3]) e munizioni. La base, di alto valore strategico proprio per la sua vicinanza alla capitale e alla città di Zintan (da sempre enclave filo-haftariana), è stata riconquistata il 19 maggio dopo essere stata sotto il controllo delle forze dell’Est dall’agosto del 2014, con solo due brevi interruzioni nell’aprile 2019 e nel gennaio 2020, quando era rientrata nelle mani del Gna. A quel punto il Lna ha fatto importanti passi in avanti, catturando Riqdalin, al-Isa, al-Ajaylat, Zliten, Sabratha e Surman, spostandosi fino al confine tunisino nella cittadina di Ra’s Ajdir.

Il 13 aprile, in seguito a un pesante contrattacco supportato dalle forze turche, l’area è stata però definitivamente ripresa dalle milizie tripoline, e l’ultimo target strategicamente rilevante, oltre a quello di al-Watiya, è la città di Tarhuna che potrebbe portare alla caduta delle forze haftariane. È utile ricordare, in questo senso che, già lo scorso giugno, esse avevano perso Gharian, in cui Haftar aveva insediato il comando centrale del Lna, vedendosi costretto poi a spostarlo verso la stessa Tarhuna.

I droni utilizzati sono muniti di 2 o 4 MAM-L, munizioni da 40 kg capaci di vere e proprie operazioni chirurgiche, con una gittata di 7 chilometri. Dalla sua parte, invece, il Lna sta usando i droni cinesi Wing Loong II, acquistati dagli Emirati Arabi Uniti, così come dall’Arabia Saudita. Il 1° aprile una fregata turca al largo di Sabratha ha sparato sulle forze cirenaiche un missile terra-aria, sancendo la prima vera e propria azione di Ankara. Non solo, ma da febbraio altre due fregate, la Goksu e la Gokova, stanno fornendo supporto navale alle forze tripolitane sulla costa tra Tripoli e Sabratha. Un Boeing E-7T della flotta aerea turca fornisce intelligence alle proprie forze operanti sulla costa.

Nel frattempo su Tripoli hanno continuato a cadere razzi artigianali Grad, di fattura russa, non risparmiando le abitazioni dei civili e, soprattutto, gli ospedali. Le zone più colpite sono quelle dell’aeroporto di Mitiga, di Suk el-Juma ed Arada, queste ultime entrambe a circa una decina di km dalla piazza dei Martiri, il cuore della capitale.

L’altra zona presa di mira è quella di Abugrein, a sud di Misurata, da cui provengono buona parte dei miliziani pro-Gna. A questo proposito, va detto che i “cartelli” tripolini sono più o meno rimasti gli stessi dall’inizio della guerra, e sono in competizione col ministero degli Interni, al momento presieduto dal misuratino Fathi Bashaga che, viste le condizioni sul terreno, è stato costretto nelle ultime settimane a liberare dalle carceri centinaia di criminali, deteriorando ulteriormente la situazione nella capitale.

Il conflitto sta dando, dopo un anno, i suoi più amari frutti: a oggi si contano più della metà – 1700 – dei morti che si sono avuti sin dall’inizio della rivoluzione nel 2011. I feriti sono circa 17.000, mentre 200.000 gli sfollati.

La guerra non si ferma, coadiuvata anche dalla disattenzione occidentale creata dalla pandemia di coronavirus. Le nazioni europee, così come gli Stati Uniti, sono occupate a gestire la più grande emergenza sanitaria dalla fine dell’influenza Spagnola del 1918-1919: è quindi comprensibile che la Libia sia passata in secondo piano. E di questo si è fatto forte Haftar che ha stretto le maglie del suo assedio. In realtà le Nazioni Unite hanno chiesto ai primi di aprile una tregua per cercare di limitare la crisi umanitaria creata dal conflitto e dal virus che ha iniziato a infiltrarsi nel tessuto libico a fine marzo, ma quel richiamo a poco è servito.

Se il 17 aprile erano indicati 49 casi confermati di Covid-19 e un solo morto, il 19 maggio se ne contavano 65 con 3 decessi. In realtà i numeri sarebbero infinitamente più alti, se si pensa che non ci sono tamponi, che gli ospedali non sono attrezzati e che, all’interno dei gruppi armati, i miliziani vivono in assoluta promiscuità. A Tripoli, al momento, nessuno sta indossando guanti o mascherine e il mercato centrale della città è affollato come se niente fosse. Non c’è prevenzione e il ministero della Salute non sta dando le risposte necessarie. Il sistema sanitario è sull’orlo del baratro, le ambulanze sono regolarmente prese di mira oppure rubate, così come i medici sequestrati o ammazzati per strada. L’ospedale principale di Tripoli, al-Khadra, ha un centinaio di ventilatori polmonari, ma non esiste niente di simile nel resto della Libia, e inoltre è stato bombardato la terza settimana di aprile per ben tre volte dal Lna;[4] basti pensare che l’ospedale di Murzuk, nel Fezzan, è dotato di solo quattro ventilatori che non sempre funzionano, a causa dei cali di tensione elettrica, sempre più numerosi in questi ultimi giorni. La situazione in Cirenaica non è migliore; è tuttavia impossibile avere dati certi: il regime ha imbavagliato i media. Un dottore che ha osato dare il proprio parere sulla gestione del Covid-19 all’interno di una trasmissione televisiva è stato immediatamente prelevato e imprigionato. Il portavoce di Haftar ha pubblicamente affermato che chiunque criticherà l’operato del governo in questo momento, verrà incarcerato.

Le stime di svariati operatori e specialisti riguardo ai danni che la pandemia potrà causare in Libia non sono rassicuranti: i morti, senza prevenzione e sistemi diagnostici, saranno migliaia, senza contare il fronte dei migranti, molti dei quali si sono trovati intrappolati in una battaglia che ormai dura da un anno e che non accenna a risolversi. Ci sono aiuti che provengono da privati, così come è attivo un team della World Health Organization, ma queste sono gocce in un oceano.

Non va poi dimenticato il blocco dei pozzi petroliferi attuato da gruppi armati simpatizzanti con Haftar che ha fatto crollare la produzione del greggio da più di un milione di barili al giorno a neanche 200.000, con una perdita economica al momento stimata intorno ai 4 miliardi di dollari. Non poco per un paese che vive solo sulle rendite dell’energia e che ha due milioni di dipendenti statali su sei milioni di abitanti. Lo scorso mese, quei due milioni non hanno, infatti, ricevuto lo stipendio, a causa del blocco. A ciò va aggiunta la straordinaria crisi globale legata al mercato del greggio che ha fatto scivolare il crollo della domanda mondiale e raggiungere a metà aprile 2020 gli 11 dollari al barile, il minimo da 21 anni. In queste condizioni, è quasi impossibile evitare una crisi umanitaria di dimensioni epiche che avrà una coda importante a livello di migrazioni dalla Libia verso l’Europa.

 

Relazioni esterne

La Conferenza di Berlino appare, a questo punto, un passaggio a vuoto. Non c’è dubbio che la cancelliera tedesca Angela Merkel abbia dato prova del suo carisma politico, riuscendo nello sforzo di riunire tutti i protagonisti della scena libica, soprattutto quelli esterni. Ma ciò, come previsto,[5] non è bastato a innescare un effettivo cessate-il-fuoco, né una tregua rispettata. I due antagonisti non hanno mai cessato di combattere, soprattutto le forze di Haftar, nonostante le promesse fatte. È chiarissima in questo senso la volontà di arrivare prima a una soluzione militare che porti poi, in un secondo momento, a una politica. Nel disegno haftariano non c’è mai stato spazio per il dialogo politico, lo dimostra ognuna delle sue mosse.

L’embargo delle armi è stato dichiarato dalla stessa acting-Special Envoy Stephanie Williams che è andata a sostituire Ghassan Salamé – dimessosi il 3 marzo scorso accampando motivi di salute, ma evidentemente sfinito dai continui insuccessi[6] – una barzelletta. Non c’è stato un singolo giorno in cui in Libia non siano arrivate armi, munizioni, uomini. La guerra è sostenuta in ogni modo da ormai una decina di potenze straniere, ma certamente quelle più attive per la coalizione di Tripoli sono Turchia e Qatar, mentre per il Lna Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Russia. Ognuno gioca una propria parte, seguendo diversi interessi nazionali.

I ministeri libici dell’Interno, della Difesa e dell’Economia sono molto vicini alla Turchia e questo è un particolare da tener presente nell’evoluzione futura della situazione a Tripoli.

È un dato di fatto che il destino del conflitto libico sia sempre più legato a ciò che succede in Siria. Pare che i russi, già presenti sul territorio con mercenari facenti parte soprattutto del Wagner Group di proprietà di un magnate russo, Yevgeny Prigozhin, molto vicino a Putin, abbiano reclutato circa 350 ex combattenti siriani pro-Assad[7] per supportare il Lna, al costo di circa 1000 dollari ciascuno per ognuno dei tre mesi d’ingaggio. Non deve essere, infatti, un caso che l’HoR, abbia aperto una propria sede diplomatica a Damasco.

Questo gruppo si va ad aggiungere a quello già presente dal gennaio 2020 in supporto delle forze tripoline e chiamato dalla Turchia:[8] circa 2000 combattenti[9], provenienti dal Free Syrian Army, e nello specifico dalla divisione Sultan Murad, pagati intorno ai 2000 dollari al mese – con la promessa di ottenere la cittadinanza turca – e che in alcuni casi sono gli stessi uomini che Erdogan aveva mandato a nord della Siria. Non va dimenticato che, etnicamente, essi sono turcomanni, ovverosia cittadini siriani con profonde radici turche. Molti analisti ritengono che il loro numero andrà a crescere nei prossimi mesi.[10] Secondo diverse fonti il Gna si appoggia anche su mercenari ciadiani provenienti dal Fezzan, attraverso intermediari di Sebha.

Gli Emirati Arabi Uniti, da parte loro, ancora nel 2016 hanno ricostruito la vecchia base aerea di al-Khadim, situata a 170 km a est di Bengasi, utilizzandola come punto di atterraggio strategico. Alla luce di ciò, molti sono i dubbi intorno all'efficacia nel fari rispettare l'embargo della nuova missione Irini[11] che, ai primi di aprile, ha sostituito la vecchia Operazione Sophia,[12] nata nel 2015 come prima operazione militare di sicurezza marittima europea contro il traffico illecito di migranti. A differenza di Sophia, operante in tutto lo scacchiere centro-meridionale del Mediterraneo, Irini, disposta unicamente per l’embargo contro le armi in Libia, avrà navi attive solo davanti alla parte orientale delle coste libiche, danneggiando di fatto solo la Turchia che approvvigiona il Gna di armi prevalentemente su quelle rotte. Con ovvio beneplacito della Grecia che, non a caso, ha concesso i propri porti. Haftar, viceversa, riceve prevalentemente armi e uomini attraverso il confine che da secoli viene usato per ogni tipo di contrabbando: quello egiziano. Oltre a ciò, viene rifornito regolarmente dagli Emirati Arabi Uniti con voli: ad aprile sono stati più di cento i loro voli partiti dalle basi di Sweihan (Uae) e da quella di Assab, in Eritrea, che sono andati a rifornire direttamente il Lna con circa 6200 tonnellate di armi e munizioni[13].

Osservando le dinamiche sul territorio di questi attori stranieri, risulta evidente come la Libia sia divenuta un altro teatro di guerra in cui affermare la propria forza geopolitica. Un esperimento dai tratti fallimentari, questo, già visto in Yemen e Siria e che non dà adito ad alcun ottimismo. Sarà necessario seguire con molta attenzione ciò che accadrà nelle prossime settimane e quali conseguenze avrà il colpo di stato intentato da Haftar nella speranza di uscire da uno stallo militare e politico che lo stava consumando. Molto dipenderà certamente dai suoi supporter, ma ancora di più dal consenso in Libia. La posizione del maresciallo di campo in Tripolitania è evidente a chiunque: anche se dovesse riuscire a conquistare la capitale, la pace non sarebbe scontata. È molto difficile, infatti, che i grandi cartelli di milizie decidano di rinunciare alla propria indipendenza a suo favore. Dall’altra parte, la Cirenaica può dirsi “sedata” al momento, ma non certo pacificata.

[1] F. Semprini, “Haftar: un golpe per conquistare Tripoli”, Affarinternazionali, 29 aprile 2020.

[2] H.A. Aksoy, “Libyan government forces attack Haftar militias”, AA.com, 15 aprile 2020.

[3]https://twitter.com/RYP__/status/1250414139798745089

[4] E Cott, B. Laffin, E Khadra, “Low Pay, High Risk: Nursing Home Workers Confront Coronavirus Dilemma”, The New York Times, 31 marzo 2020.

[5] O. Imhof, “Libya: a year of living dangerously”, Airways, 6 aprile 2020.

[6] “UN envoy for Libya Ghassan Salame resigns, citing ‘stress’”, Al Jazeera, 3 marzo 2020.

[7]https://twitter.com/Elizrael/status/1249451171133231105

[8] F. Wehrey, “Among the Syrian Militiamen of Turkey’s Intervention in Libya”, Libya Tribune, 26 gennaio 2020.

[9] B. McKernan e H. Akoush, “Exclusive: 2,000 Syrian fighters deployed to Libya to support government”, The Guardian, 15 gennaio 2020.

[10] T. Eaton et al., The Development of Libyan Armed Groups Since 2014. Community Dynamics and Economic Interests, Research Paper, Chatham House, marzo 2020.

[11] T. Megerisi, “EU’s ‘Irini’ Libya mission: Europe’s Operation Cassandra”, euobserver, 3 aprile2020.

[12] Ministero dell Difesa, EUNAVFOR MED Operation Sophia.

[13] N. Tanriverdi Yasar “Tide turning in Libyan war”, Libya Tribune, 20 aprile 2020.

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AUTORI

Federica Saini Fasanotti
ISPI e The Brookings Institution

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