Il 9 luglio 2019 si è celebrato il primo anniversario dell’accordo di pace tra Etiopia ed Eritrea. Si è trattato di un evento di portata storica, che ha seguito la ripresa delle relazioni diplomatiche interrotte vent’anni prima. Tra i molti effetti del processo di pace, uno dei più tangibili è stata la riapertura del confine tra i due Paesi e la riconfigurazione della mobilità regionale.
La chiusura del confine tra i due Stati, durante la guerra del 1998-2000, aveva avuto un impatto profondo sul tessuto sociale, economico e familiare locale. Aveva interrotto, in particolare, una fitta mobilità transfrontaliera e le radicate reti familiari, amicali e commerciali che legavano le comunità da una parte e dall’altra del confine, lascito della dominazione coloniale italiana (1889-1943), e che erano proseguite anche in seguito al conseguimento dell’indipendenza eritrea dall’Etiopia, nel 1993.
Negli ultimi vent’anni, entrambi gli stati hanno perso molto dalla mancata collaborazione reciproca. Da un lato, per cercare di raggiungere un ideale di sviluppo basato sull’autosufficienza, l’Eritrea ha impoverito i suoi cittadini e ne ha sfruttato il lavoro forzato, alienandosi il sostegno della comunità internazionale. Dall’altro lato, seppur protagonista di un dirompente sviluppo economico e di una crescente leadership regionale, l’Etiopia ha risentito del mancato accesso ai porti eritrei.
Quando, nel luglio del 2018, l’Ethiopian Airlines ha effettuato il primo volo di linea da Addis Ababa ad Asmara, l’entusiasmo è stato palpabile. Da allora, migliaia di persone e merci hanno attraversato il confine, in aereo, in bajaj,[1] in macchina, in moto e persino a piedi, a seconda delle possibilità economiche, della distanza dal confine o del carico da trasportare. Il flusso è aumentato esponenzialmente quando, a ottobre 2018, si è decisa l’apertura dei valichi di frontiera tra il Tigray – regione settentrionale dell’Etiopia – e il sud dell’Eritrea.
Numerosi eritrei – 30.000 solo tra settembre e ottobre, secondo stime accreditate – hanno colto l’occasione per sfuggire alla dittatura e al servizio nazionale indefinito[2] verso l’Etiopia, che ospitava in quel momento circa 100.000 rifugiati eritrei. Se, prima dell’apertura del confine, i fuggitivi ricorrevano ai costosi passeur, l’allentamento dei controlli ha fatto sì che in molti potessero uscire dal Paese senza costi né rischi. Donne e bambini, i cui mariti e padri vivono in Europa, hanno potuto raggiungere l’Etiopia con più facilità e da lì richiedere i documenti necessari per il ricongiungimento familiare.
Tali flussi, tuttavia, hanno costituito solo una parte dell’eterogenea mobilità transfrontaliera degli ultimi mesi. In molti hanno viaggiato per incontrare nuovamente familiari e amici di cui avevano perduto i contatti a causa della guerra. Oggi negli aeroporti di Asmara e di Addis Abeba è normale incontrare signore eritree ed etiopi avvolte nei loro nezela bianchi con l’ambasha (il pane tradizionale locale) sotto braccio mentre si recano a visitare familiari persi di vista ormai da decenni a causa della guerra, che aveva precluso persino le connessioni telefoniche tra i due Paesi. Anche eritrei dall’Europa hanno raggiunto l’Etiopia per riabbracciare le loro famiglie, lontano dagli sguardi delle autorità eritree.
Altri hanno viaggiato per turismo. Il mito di Asmara è forte nell’immaginario di molti etiopi, cresciuti senza la possibilità di ammirarne le bellezze architettoniche né di visitare le coste affacciate sul mar Rosso. E gli eritrei, alle prese con le asperità della vita in uno Stato in assetto di guerra costante, immaginano l’Etiopia come un’alternativa di sviluppo e libertà, di cui hanno avuto notizia attraverso i diffusi canali televisivi etiopi. Molti giovani ad Asmara e nelle città del sud, lontane dall’Etiopia solo poche ore di macchina, hanno viaggiato verso il Tigray per vedere i sacri incanti di Axum e assaporare l’aria di libertà nei locali notturni di Mekelle. Altri ancora hanno viaggiato per interesse commerciale, acquistando e rivendendo beni e merci carenti dall’una o dall’altra parte del confine. Per gli etiopi che avevano vissuto in Eritrea prima della guerra, e che sono stati espulsi in ragione della loro cittadinanza, il viaggio in Eritrea ha costituito, infine, un “ritorno a casa”, sebbene in una casa ormai irrimediabilmente perduta.
L’apertura del confine, però, non ha significato un miglioramento delle condizioni di vita degli eritrei, né in Eritrea – dove la pressione del governo sui cittadini è rimasta invariata – né in Etiopia. Mentre le occasioni di reinsediamento verso paesi terzi scarseggiano, così come le possibilità di migrare verso l’Europa, le politiche di integrazione locale in Etiopia rimangono a uno stadio sperimentale e i rifugiati godono di limitati diritti di movimento e di lavoro. Tenuto conto dell’instabilità politica interna che attraversa l’Etiopia, che è associata, in particolare, ai diversi focolai di tensione alimentati da gruppi armati su base etnica, e che si concretizza nell’elevato numero di sfollati interni, le prospettive di un miglioramento a breve termine appaiono improbabili.
Molti migranti eritrei vivono nell’attesa di raggiungere altre destinazioni, in cui il sistema di protezione garantisca loro migliori opportunità. Tuttavia, contrariamente al pensiero comune, l’Europa, e più in generale i paesi occidentali, sono solo una – benché spesso la più ambita – tra le mete desiderate. Un numero crescente di eritrei decide di raggiungere l’Angola, dove negli ultimi anni si sono aperti spazi economici che i più intraprendenti desiderano esplorare; oppure l’Uganda, che sta attualmente sperimentando politiche di accoglienza all’avanguardia.
Tuttavia, l’apertura del confine è tutt’altro che definitiva. La frontiera tra Eritrea ed Etiopia è stata aperta e richiusa, solitamente su iniziativa del governo di Asmara, diverse volte, per ragioni non del tutto chiare. Attualmente i valichi di frontiera sono chiusi e l’instabilità della situazione politica etiope rende qualsiasi previsione sul futuro delle relazioni tra i due paesi e delle dinamiche di mobilità intra-regionale azzardata.
La mobilità tra Eritrea ed Etiopia degli ultimi mesi mostra come le migrazioni intra-africane siano movimenti complessi, multidirezionali, frutto di vicende storiche profonde così come della capacità degli individui di far fronte a continue sfide politiche, sociali ed economiche. Se la riapertura del confine ha infittito la fuoriuscita di eritrei in cerca di protezione, è altrettanto vero che questa ha messo in moto altre mobilità che seguono direzioni differenti come il turismo, gli affari e il ritornare.
In un’area di grande interesse strategico come il Corno d’Africa, le mobilità interne potrebbero favorire il consolidamento dal basso di un riavvicinamento a lungo atteso ma ancora precario, tra Eritrea ed Etiopia. Per divenire effettivo, in effetti, il processo di pace dovrà essere affiancato, in Eritrea, da una transizione democratica che garantisca il godimento dei diritti ai suoi cittadini, e dal raggiungimento di una distensione delle relazioni inter-etniche in Etiopia.
Guardare alle mobilità intra-africane consente di superare erronei luoghi comuni, come l’idea che l’Europa porti sulle spalle il peso maggiore delle crisi umanitarie in Africa. Mentre l’Etiopia continua a ricevere circa 300 rifugiati eritrei al giorno che, assieme ai somali, sud-sudanesi e sudanesi compongono una popolazione di più di un milione di rifugiati, le politiche italiane ed europee di gestione e contenimento dei flussi migratori bloccano i migranti nei lager libici e impediscono i salvataggi in mare. È forse tempo che il presupposto secondo cui l’Europa costituisce un luogo aprioristicamente migliore in cui vivere rispetto ai paesi del cosiddetto “Sud globale” venga rivisto.
[1] Piccoli tricicli impiegati in Etiopia nel trasporto pubblico.
[2] In Eritrea vige un sistema di leva militare e civile obbligatoria imposto, a tempo indefinito, a tutti i cittadini a partire dai 17 anni.