Domenica 27 ottobre, dopo alcune anticipazioni sui media, il Presidente USA Donald Trump ha tenuto una conferenza stampa alla Casa Bianca per annunciare ufficialmente la morte di Abu Bakr al-Baghdadi, il leader del cosiddetto Stato Islamico (IS), nel corso di un’operazione eseguita alcune ore prima dalle forze speciali statunitensi in Siria.
Dopo un’attività di sorveglianza di «un paio di settimane», i militari americani hanno attaccato un edificio nei pressi del villaggio di Barisha, nel governatorato di Idlib. Secondo la ricostruzione presentata dal Presidente Trump, durante il raid Baghdadi si sarebbe riparato in un tunnel sotterraneo senza via di uscita portando con sé tre figli e lì si sarebbe fatto esplodere attivando un giubbotto esplosivo.
Le forze americane, che non hanno subito perdite nell’operazione, hanno poi distrutto il compound per evitare che potesse diventare una sorta di santuario per i sostenitori del sedicente “califfato”, non prima di aver raccolto «materiale e informazioni altamente sensibili».
Il fatto che il raid abbia avuto luogo nel governatorato di Idlib merita attenzione. La maggior parte degli esperti ipotizzava infatti che il leader dell’organizzazione jihadista si nascondesse ancora in Iraq o quantomeno al confine tra Siria e Iraq. Il villaggio di Barisha si trova, invece, nell’angolo nord-occidentale della Siria, a pochi chilometri di distanza dal confine turco.
Oltretutto, il governatorato di Idlib è controllata da una coalizione di milizie ribelli, tra le quali spicca Hayat Tahrir al-Sham (HTS), un gruppo armato di origine qaidista, acerrimo rivale dell’IS. Si può ricordare, a titolo di esempio, che in quest’area HTS ha giustiziato militanti dell’IS nei mesi scorsi. Può quindi apparire sorprendente che il leader del cosiddetto Stato Islamico, su cui pendeva anche una taglia di 25 milioni di dollari, abbia deciso di nascondersi proprio tra gli avversari di ispirazione qaidista. D’altra parte, si può anche argomentare che, dopo il crollo del “califfato” nel marzo del 2019, nell’intera regione fossero ormai rimasti ben pochi rifugi sicuri. Alcuni esperti hanno congetturato che la presenza di Baghdadi nella zona potesse essere persino dovuta all’intento di promuovere di persona possibili iniziative di riconciliazione con i rivali di origine qaidista.
Il governatorato di Idlib è peraltro un’area della Siria in cui le forze di Washington non avevano operato negli ultimi anni. Da una più ampia ottica geopolitica, vale la pena di notare che nel suo discorso Trump ha esplicitamente negato che l’operazione fosse connessa alla recente offensiva militare turca nel nord-est e ai suoi effetti nella regione. Il Presidente USA ha ringraziato per la collaborazione Russia, Turchia, Iraq, Siria e anche i curdi siriani, pur sottolineando che il raid di Barisha è stato pianificato e portato a termine soltanto dalle forze statunitensi. Al contrario, agli alleati europei Trump ha dedicato solo poche parole nelle risposte ai giornalisti, per criticarli nuovamente per la loro inerzia rispetto al problema del rimpatrio dei foreign fighters.
L’iracheno Abu Bakr al-Baghdadi (vero nome: Ibrahim Awad Ibrahim al-Badri), 48 anni, era il terrorista più ricercato del mondo. Nonostante la gigantesca caccia all’uomo, in tutti questi anni era riuscito a far perdere le proprie tracce, pur mantenendo il controllo dell’organizzazione jihadista - sin dal 2010, quanto si chiamava ancora Stato Islamico dell’Iraq.
In generale, come si è già osservato, le organizzazioni terroristiche come l’IS operano in condizioni di clandestinità per preservare la loro sicurezza, ma devono essere contemporaneamente visibili per mantenere le relazioni con l’ambiente sociale e raggiungere i propri obiettivi politici. Al vertice del gruppo clandestino, questo dilemma tra segretezza e visibilità si manifesta poi con la massima intensità. Di fronte a questo trade-off, non pochi leader terroristici, come Osama bin Laden (ucciso nel 2011), preferiscono correre dei rischi.
Al contrario, Baghdadi ha optato per una strategia diversa, preferendo la segretezza (e la sicurezza) alla pubblicità. Con poche eccezioni, non ha giocato in prima persona un ruolo chiave nella vasta, continua e sofisticata campagna di comunicazione e propaganda del gruppo.
Inoltre, anche se Baghdadi ha coltivato un’autorità carismatica, l’IS sotto la sua guida è diventato una vasta organizzazione di impostazione burocratica, senza avere l’esigenza di costruire un culto della personalità intorno alla sua leadership.
Ciononostante, negli ultimi mesi, l’auto-proclamato “califfo” aveva deciso di apparire con più frequenza nella propaganda dell’organizzazione, anche a costo di assumersi presumibilmente maggiori rischi: ad aprile 2019 il gruppo armato aveva diffuso un video in cui compariva come protagonista – quasi 5 anni dopo quello pubblicato per celebrare la proclamazione del “califfato” a Mosul –, seguito da una registrazione audio a settembre. Rimane da verificare se questa maggior esposizione mediatica abbia effettivamente messo a repentaglio la sua incolumità.
La morte del “califfo” costituisce indubbiamente un colpo assai duro per l’IS. Nondimeno, con ogni probabilità non ne segna il declino né tantomeno la fine. D’altronde, anche le altre due presidenze negli Stati Uniti che si sono succedute dopo l’11 settembre hanno avuto modo di celebrare un’esecuzione mirata di prima grandezza (Abu Musab Zarqawi ai tempi di Bush nel 2006 e soprattutto Osama bin Laden nel 2011 con Obama), senza che questa portasse alla disgregazione della relativa organizzazione terroristica.
In generale, l’efficacia della decapitazione di leader delle organizzazioni terroristiche è ancora oggetto di dibattito tra studiosi ed esperti. Da un punto di vista squisitamente operativo (al di là delle questioni giuridiche e morali, pur rilevanti), questa tattica implica sia vantaggi sia svantaggi.
Tra i vantaggi, si può notare che la semplice minaccia, purché credibile, di eliminare la leadership terroristica può esercitare una capacità di deterrenza, volta a dissuadere l’organizzazione e i singoli leader dal proseguire le proprie attività violente, e, in ogni caso, costringe i leader a investire tempo e risorse preziosi per nascondersi, invece che per seguire le attività del gruppo, compresa la pianificazione di attacchi.
Naturalmente, se la decapitazione va a segno (nella forma di uccisione o di cattura del leader), l’organizzazione rischia di disgregarsi o quantomeno di indebolirsi. In relazione alla traiettoria del cosiddetto Stato Islamico, si può affermare che il gruppo armato non abbia subito una ferita mortale: una storia relativamente lunga e una struttura consolidata e di impostazione burocratica, non fondata principalmente sul carisma del suo leader lo rendono infatti piuttosto resistente. Si può addirittura ipotizzare che l’impatto negativo della morte di Baghdadi per l’IS possa rivelarsi inferiore a quello dell’uccisione di bin Laden per al-Qaida. Nondimeno, l’evento ha conseguenze negative sul piano operativo e, forse ancor più, sul piano simbolico, aggravando ulteriormente le difficoltà che il gruppo armato era già costretto ad affrontare, dopo il recente collasso del “califfato”.
Sul profilo dei vantaggi, non sono da sottovalutare le conseguenze all’interno della parte che ha portato a termine la decapitazione. L’eliminazione di Baghdadi rappresenta chiaramente un successo notevole per l’Amministrazione americana, tanto più in un periodo delicato della presidenza Trump, sia in politica interna sia in politica estera: rispetto al secondo fronte, basti pensare all’improvvisa decisione, criticata anche da esponenti dello stesso Partito Repubblicano, di ritirare le forze armate statunitensi dal nord della Siria e di accettare l’offensiva militare turca.
Dall’altra parte, l’esecuzione mirata può condurre anche a svantaggi per la parte che l’ha eseguita (e per le parti che l’hanno sostenuta). Nel breve e medio periodo, vi può essere il rischio di ritorsioni violente: non si può affatto escludere che la stessa eliminazione di Baghdadi scateni tentativi di rappresaglia, anche in Occidente.
Inoltre, la morte del leader può essere raffigurata dai suoi sostenitori come una eroica e lodevole azione di “martirio” e utilizzata in chiave propagandistica per promuovere ulteriormente la causa: il fatto che Baghdadi, a differenza di Bin Laden nel 2011, abbia sacrificato la propria vita e quella di tre figli può essere facilmente inserito in questo tipo di narrativa. Non a caso nel suo discorso Trump ha insistito, con un linguaggio abbastanza colorito, nel dipingere il leader dell’IS come un «codardo»; i militari americani hanno inoltre subito distrutto l’edificio in cui l’emiro è deceduto.
Da parte sua, al momento l’IS non ha pubblicato dichiarazioni ufficiali in merito alla presunta morte del suo “califfo”. D’altronde, in passato, anche quando operava con altri nomi, il gruppo armato non si era affrettato a commentare ufficialmente la perdita dei propri leader – con eccezioni come quella dell’influente portavoce Abu Muhammad al-Adnani, la cui esecuzione mirata il 30 agosto 2016 è stata riconosciuta dal gruppo armato nel corso della stessa giornata.
Chiaramente gli effetti di una decapitazione dipendono in maniera non secondaria dalle modalità della successione al vertice e dalle caratteristiche del successore. Per l’IS la questione rimane aperta. Almeno da quando ha proclamato il “califfato” nel 2014, non ha pubblicamente riconosciuto un “numero 2” nella propria gerarchia. Pochi mesi fa erano circolate voci, talora palesemente false, in merito della nomina di un successore dell’emiro, in particolare nella persona dell’iracheno Abdullah Qardash. Anche ammettendo che questa designazione abbia effettivamente avuto luogo, rimane il fatto che il gruppo armato non l’ha annunciata in maniera ufficiale. In ogni caso, con Baghdadi ancora in vita, sarebbe stata una scelta potenzialmente controproducente perché avrebbe danneggiato lo status e la credibilità dello stesso Baghdadi, avrebbe aumentato i rischi per la sicurezza del successore designato e avrebbe probabilmente avuto un impatto non positivo sul morale dei militanti e dei sostenitori dell’organizzazione. D’altra parte, come è stato notato, negli ultimi anni le informazioni disponibili sulla leadership del gruppo armato sono state minime.
Chiunque sarà alla fine il successore di Baghadi, non è detto che abbia il medesimo livello di competenze e capacità e di riconoscimento di chi l’ha preceduto: per esempio, non si può dare per scontato che erediti automaticamente il titolo di “califfo” e abbia esattamente lo stesso ruolo del suo predecessore.
A rendere ancora più saliente la giornata è il fatto che, secondo fonti curde, un’altra delle figure principali dell’organizzazione, il portavoce ufficiale, noto con il nome di battaglia di Abu Hassan al-Muhajir, sarebbe stato ucciso alcune ore dopo in Siria con un’altra esecuzione mirata. Con la scomparsa anche di Muhajir nella medesima giornata, l’IS perde di fatto l’ultimo dei suoi volti pubblici.
In conclusione, la morte di Baghdadi è indubbiamente una notizia assai rilevante, ma i suoi effetti concreti sono ancora difficili da prevedere e potrebbero non essere necessariamente disastrosi per le sorti del cosiddetto Stato Islamico.