I recenti colloqui fra la Nato e alcuni paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg) avvengono mentre l’Arabia Saudita e l’occidente attraversano un momento tormentato della loro storia diplomatica. E stimolano qualche riflessione sul concetto di sicurezza e sulle sue molteplici “traduzioni” politiche. Il 2 aprile scorso, la Nato e le quattro monarchie del Ccg aderenti all’Istanbul Cooperation Initiative (Ici) si sono incontrate a Bruxelles: è stato il primo vertice dal 2004, quando l’Alleanza Atlantica inventò questo framework istituzionale per la sicurezza, dedicato alla sponda arabica del Golfo (parallelo al Dialogo Mediterraneo, che coinvolge i paesi del Maghreb e del Levante arabo). L’Ici intende offrire alle monarchie della Penisola arabica occasioni pratiche di cooperazione bilaterale con la Nato; il Kuwait (che si è offerto di ospitare il Centro regionale dell’Ici) ha aderito all’iniziativa fin dal 2004, mentre Bahrein e Qatar, seguiti dagli Emirati Arabi Uniti (Eau), si sono aggiunti l’anno successivo. Arabia Saudita e Oman non partecipano all’Ici ma sono coinvolte in discussioni informali ed eventi di diplomazia pubblica. Dal 2004 a oggi, il quadro politico regionale è assai mutato: le rivolte arabe del 2010-11 non hanno solo alterato gli equilibri di potere mediorientali, ma hanno profondamente inciso sulle relazioni interstatali nel quadrante, offrendo un “vantaggio di posizione” all’Arabia Saudita nei confronti del rivale/nemico Iran e del suo arco sciita. Nel corso del 2013, il disgelo diplomatico fra Teheran e Washington e il mancato intervento militare Usa in Siria hanno però spiazzato e diviso il fronte delle monarchie della Penisola, ponendo Riyadh di fronte a sfide nuove e insidiose.
La formula “Nato+1” che contraddistingue l’Istanbul Cooperation Initiative le ha permesso di aggirare l’impasse politica che sta logorando il Consiglio di Cooperazione del Golfo, paralizzatosi intorno alla disputa fra Arabia Saudita (con Bahrein ed Eau) e Qatar, sull’appoggio materiale di quest’ultimo alla Fratellanza musulmana nella regione. Nell’attuale clima di tensione, un summit Nato-Ccg sarebbe stato impossibile da organizzare, come tra l’altro dimostrato dall’ultimo, irrilevante, vertice della Lega Araba a Kuwait City in cui, fra le monarchie del Golfo, solo il Qatar ha inviato il suo massimo rappresentante.
Alla riunione di Bruxelles, il segretario uscente dell’Alleanza Atlantica Anders Fogh Rasmussen ha evidenziato come le parti stiano lavorando per “approfondire il dialogo politico e la cooperazione pratica”, concentrandosi su tre direttrici: sicurezza marittima, sicurezza delle infrastrutture energetiche e sicurezza informatica. La stabilità del Golfo è infatti una priorità sia per la Nato che per il Ccg (si pensi al choke-point di Hormuz, crocevia del petrolio mondiale), intenzionati a contrastare terrorismo, pirateria e criminalità organizzata.
Al di là di questi macro-temi, sarebbe però arduo individuare altri obiettivi davvero convergenti tra l’alleanza euroamericana e l’organizzazione delle monarchie della Penisola, poiché essi attribuiscono al concetto di sicurezza due significati non sovrapponibili e, talvolta, in contrasto fra loro. Come tutti i sistemi politici autoritari, anche i governi del Ccg considerano la sicurezza nazionale nient’altro che un sinonimo della sicurezza dei rispettivi regimi; inoltre, le relazioni civili-militari hanno contorni volutamente indefiniti, dal momento che le Forze armate sono le protagoniste della rete neo-patrimoniale che alimenta il potere monarchico, a discapito della loro professionalizzazione. Non è allora un caso che l’Istanbul Cooperation Initiative, in quanto esperimento di confidence building lungo l’asse nord-sud del mondo, si soffermi su un piano pratico della cooperazione, volto al trasferimento delle best practices che la Nato ha accumulato sul campo, nelle molte crisi complesse affrontate finora. Tra le attività proposte dall’Ici vi sono infatti consulenze in tema di trasformazione negli affari militari, training ed esercitazioni militari congiunte, condivisione dei dati informatici sensibili per la lotta al terrorismo transnazionale, misure per la sicurezza delle frontiere (specie marittime), pianificazione per le emergenze civili, iniziative di diplomazia pubblica.
La sicurezza cooperativa è al centro dell’ultimo Concetto Strategico elaborato dalla Nato (Lisbona 2010). Tuttavia, le acute divergenze interne al Consiglio di Cooperazione del Golfo allontanano, nel medio periodo, la possibilità che le attuali relazioni bilaterali si trasformino in un pieno partenariato fra Nato e Ccg; inoltre, l’effettiva creazione di un comando di difesa integrato fra le monarchie – annunciata nel dicembre 2013 – non potrà che risentire delle pubbliche diatribe fra Riyadh e Doha. Al momento, l’obiettivo primario dell’Alleanza Atlantica è invece aumentare il tasso di interoperabilità tra le forze della Nato e quelle delle monarchie sunnite, anche per stemperare l’impronta occidentale degli interventi militari dell’Alleanza nel sudest del mondo; il segretario Rasmussen ha plaudito all’impegno di Bahrein ed Emirati nel corso della missione Isaf in Afghanistan(1), così come alla presenza (di solo appoggio) dell’aereonautica di Qatar ed Emirati nella più recente operazione Unified Protector in Libia.
Nella cornice politica odierna, l’approfondimento della cooperazione di sicurezza fra Nato e Consiglio di Cooperazione del Golfo potrebbe fungere da "anticamera" per il rilancio della partnership fra Arabia Saudita e Stati Uniti. Se è vero che l’Alleanza Atlantica e la Casa Bianca sono due entità ben distinte, lo è altrettanto che il recupero saudita della fiducia nell’occidente dopo il “tradimento” vissuto sui dossier Iran e Siria può passare attraverso occasioni di collaborazione pratica su questioni condivise (sicurezza marittima e delle infrastrutture energetiche in primis).
Mai come oggi, le monarchie del Golfo, divise e disorientate, dimostrano di avere bisogno di un fornitore di sicurezza esterno, dunque degli Stati Uniti, che allargheranno la Vª Flotta in Bahrein, paese fulcro dei tumulti socio-confessionali nella Penisola. Perché l’Asia è sempre più dipendente dal petrolio arabico, ma né Cina e India (né tanto meno la Russia) hanno intenzione di trasformarsi nei nuovi guardiani del Golfo. La difficilissima sfida di domani, per Riyadh e Washington, è negoziare un altro punto di sintesi proprio sul concetto di sicurezza. Per i sauditi, ciò significherebbe accettare che le riforme interne sono lo strumento più efficace per depotenziare, nel lungo periodo, il malcontento sociale nella Penisola; per gli statunitensi, questo comporterebbe praticare, senza eccessivi timori, una politica riformatrice assertiva verso i paesi Ccg, scelta che soddisfa, in prospettiva, gli interessi nazionali di Washington nel quadrante. Però, una rinnovata alleanza per la sicurezza del Golfo fra gli Usa e le monarchie può nascere solo in un clima di fiducia reciproca; in questo senso, il contributo della Nato potrebbe essere significativo, proprio perché focalizzato su misure concrete di cooperazione.
1. 250 militari emiratini e un piccolo contingente bahreinita a custodia di Camp Leatherneck, nella provincia meridionale di Helmand.