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MATERIE PRIME

La nuova mappa dei metalli

Gianclaudio Torlizzi
24 giugno 2022

In un quadro di estrema tensione sul lato dell’offerta determinato dal regime sanzionatorio contro Mosca, le élites americane ed europee sembrano mantenere una ferma convinzione riguardo ai piani di riduzione della CO2, colpevoli di disincentivare le grandi compagnie energetiche e petrolifere nell’intraprendere nuovi investimenti in capacità produttiva. A confermare la dinamica in atto è la stessa Energy Aspects, una delle società di ricerca più prestigiose nel comparto petrolifero che, in un recente report inviato alla clientela, ha evidenziato: "Nonostante i segnali di prezzo, ci sono pochi incentivi a investire a causa di considerazioni ESG. L'aumento del prezzo del petrolio è un problema strutturale e non ciclico, causato da anni di sotto-investimenti. E fino a quando la domanda non viene effettivamente ridotta, non c'è soluzione”.

 

Pressione crescente sulle materie prime

Proprio l’esiguo numero di impianti di raffinazione accompagnato al calo dell’offerta di petrolio russo sta già provocando una forte carenza di prodotti raffinati al punto da spingere il prezzo del future europeo del gasolio poco sotto i 1.300 dollari la tonnellata e quello della benzina negli USA sopra i 5 dollari al gallone. Lo stesso Brent continua a mantenersi sopra i 100/bbl dollari malgrado il forte rallentamento dell’economia mondiale, il rilascio delle scorte strategiche statunitensi e l’aumento produttivo varato dall’OPEC agli inizi di giugno. L’impatto delle politiche climatiche si farà naturalmente sentire anche su quelle materie prime, come i metalli, che invece beneficeranno della domanda di tecnologie legate all’elettrificazione. Secondo la Banca Mondiale la produzione di metalli dovrà aumentare del 500% per soddisfare gli obiettivi climatici. Per dare un’idea delle dinamiche in atto, il prezzo del carbonato di litio (il cui utilizzo in Europa dovrà aumentare del 500% entro il 2050) è balzato in appena un anno dai 16.000 agli attuali 75.000 dollari in scia alle aspettative di crescita del mercato delle auto elettriche la cui produzione è prevista passi dalle attuali 6,9 milioni di unità a 13,6 milioni di unità nel 2024.

Con queste premesse non sorprende se il livello delle scorte di metalli nei magazzini del London Metal Exchange (LME) continuino a mostrare un livello critico. Malgrado nel mese di aprile si sia registrato il primo aumento delle scorte totali (ufficiali + non ufficiali) nei magazzini del LME dal febbraio 2021, nei primi quattro mesi dell’anno si è assistito a un calo di 479 mila tonnellate.

Un punto importante da evidenziare tuttavia riguarda tuttavia la distribuzione delle scorte di metallo che rimangono sempre più concentrate in Asia. Il focus riguarda in particolare l’alluminio il cui balzo delle scorte non ufficiali nel mese di aprile ha contribuito alla leggera stabilizzazione delle scorte complessive di metallo al LME. Ebbene, a contribuire al balzo delle scorte non ufficiali di alluminio sono giunti gli afflussi di metallo nei magazzini di Singapore e Malesia. Rimangono critici invece i livelli nei magazzini europei (il cui livello totale delle scorte non arriva a 20 mila tonnellate) e statunitensi (in calo da 18 mesi consecutivi a 22.339 tonnellate).

Non giunge pertanto come una sorpresa l’allarme lanciato da Bank of America secondo cui il livello straordinariamente basso di scorte di alluminio nei magazzini LME rende il metallo a rischio di uno squeeze simile a quello che nel marzo 2022 ha investito il nichel, passato in sole due sessioni di Borsa da 26.000 a oltre 100.000 dollari per tonnellata prima di tornare verso gli attuali livelli pre-bellici. A rendere concreto il rischio di uno squeeze sull’alluminio giunge la progressiva distruzione delle scorte di alluminio nei magazzini LME che potrebbero arrivare a zero entro ottobre, avverte sempre Bank of America.

 

Risorse in mano alla Cina

L’alluminio non è un caso isolato. Le scorte non ufficiali di zinco negli USA sono scese quasi a zero mentre in Europa dopo essere praticamente scomparse a partire da settembre 2021 non sono state più ricostituite.  Proprio la migrazione delle scorte di metallo verso l’Asia rappresenta una dinamica in atto dallo scoppio della pandemia in ragione della forte domanda da parte della Cina. Complessivamente, secondo le stime di JP Morgan, il livello complessivo di scorte di commodities (metalli, beni agricoli) a livello mondiale è sceso ad appena 51 giorni di consumo nel mese di maggio che sale a 64,4 giorni se si include la Cina. E malgrado negli ultimi mesi si stia registrato una leggera inversione dei flussi dall’Asia verso Occidente, in ragione dell’arbitraggio che ha reso il materiale made in China più conveniente di quelli europeo e statunitense, la Cina mantiene una ferrea posizione di controllo detenendo il 93% delle scorte mondiali di rame, il 74% di quelle di alluminio, il 68% di quelle di mais e il 51% di quelle di frumento. Dinamica questa che si inquadra all’interno di un percorso di crescente isolamento del Paese come evidenziato sia dal giro di vite sui settori immobiliari e del tech, sia dalla serie di severi lockdowns imposti dalla scorsa primavera causa Covid. Il rischio è quello che Pechino possa utilizzare le materie prime come arma di pressione geostrategica (weaponization) nei confronti dell’Occidente sulla falsariga di quanto attualmente perseguito dal governo di Mosca nel mercato del gas.

La presa della Cina sul comparto delle materie prime va di pari passo con la posizione di dominio acquisita nel settore della raffinazione. Se infatti sul lato dell’estrazione vera e propria il controllo cinese riguarda solamente le terre rare e la grafite e in misura minore il litio (18% produzione mondiale dopo Cile 26,5% e Australia 48%), la Cina ha compensato la bassa presenza nell’attività estrattiva di metalli sia attraverso l’azione di penetrazione commerciale in Africa (insieme alla Russia) sia investendo nelle attività di raffinazione e nelle applicazioni green. Pechino ricopre infatti una posizione ultra-dominante anche nel settore degli elettrolizzatori per la produzione di idrogeno verde oltre a controllare più del 35% del mercato delle batterie elettriche.

Non è secondario rilevare come Pechino stia sostenendo un nuovo piano di sviluppo del comparto delle auto elettriche attraverso lo swapping di batterie. Un processo questo che rappresenterebbe una killer application per i produttori automobilistici cinesi ai danni dei produttori europei qualora si autorizzassero i players cinesi a insediare stazioni di ricarica. Al rischio invasione auto elettriche cinesi nel mercato europeo occorre riservare grande attenzione in relazione all’effetto che sortirebbe sulla bilancia commerciale dell’Eurozona già fortemente compromessa dall’aggravio delle importazioni di beni energetici.

 

Il ruolo chiave dell’America Latina

Il rischio di adottare ambiziosi target climatici senza essersi prima tutelati sul fronte della filiera a monte, oltre ai danni di natura economica, rappresenta un problema di carattere strategico. In assenza di una stabile e affidabile catena di approvvigionamento di minerali critici e terre rare disgiunti autonoma rispetto a Pechino, l’Europa potrebbe cadere in una dipendenza più pericolosa di quella energetica dalla Russia.

A preoccupare sul fronte della disponibilità futura di metalli giungono anche le recenti dinamiche politiche in Sud America, continente particolarmente ricco di metalli ma che sta progressivamente finendo sotto il controllo di partiti anti-establishment in ragione della nuova fase di impoverimento nella regione. In Messico il populista Andres Manuel López Obrador, ha ottenuto, attraverso un referendum dell’11 aprile scorso, la continuazione del suo mandato (nonostante il basso livello di partecipazione popolare). Tra i primissimi provvedimenti intrapresi dal governo, la riforma della legge mineraria che esclude ogni nuova concessione alle società private dell’estrazione di litio, compiendo di fatto un passo verso la nazionalizzazione. Il Messico è il primo produttore mondiale di argento per tonnellaggio (21% dell’output a livello mondiale). Il Paese è anche tra i principali produttori mondiali di fluorite (pari al 15% della produzione mondiale); terzo tra i principali produttori mondiali di bismuto (7% della produzione mondiale) e wollastonite (8% del produzione mondiale, Stati Uniti esclusi); quinto tra i principali produttori mondiali di cadmio (6% della produzione mondiale, esclusi gli Stati Uniti); e sesto tra i mondiali principali produttori di zinco (5% della produzione mondiale).

In Bolivia il comando del Paese è dall’ottobre 2020 nelle mani del socialista Luis Arce, delfino dell'ex presidente Evo Morales. Il Paese sudamericano, oltre a detenere la quantità maggiore di litio nel continente sudamericano, è tra i principali produttori mondiali di stagno (6%) e argento (5%). Ricopre inoltre un ruolo importante a livello mondiale nella produzione di antimonio, arsenico, boro (ulexite), piombo, tungsteno e zinco. Altre materie prime minerali prodotte nel Paese includono: barite, bismuto, bentonite, acido borico, cemento, rame, petrolio greggio, oro, gesso, salgemma e tantalio. La Bolivia ha anche riserve significative di antimonio, che si stima siano il 21% del totale stimato mondiale di 310.000 tonnellate.

Al triangolo del litio gruppo potrebbe presto unirsi anche il Perú che ha recentemente scoperto una miniera di litio della capacità di 4,7 milioni di tonnellate. Ma al pari degli altri Paesi sudamericani anche in questo caso si registra instabilità politica. Il presidente eletto nel giugno dello scorso anno il socialista Pedro Castillo ha già dovuto fronteggiare due richieste di impeachment, cambiato il primo ministro 4 volte e a fare i conti con un’inchiesta per corruzione. Il Perú è anche al secondo posto nella produzione mondiale di argento (16% della produzione mondiale) e in quella di rame e zinco (12% ciascuno); terzo nella produzione di piombo (7%); e quarto nella produzione di molibdeno (9%) e stagno (6%).

 

C’è posto anche per l’Europa

Non che in Europa non vi siano metalli. Per quanto concerne per esempio il litio, metallo essenziale per gli accumulatori più avanzati, come quelli degli smartphone e delle batterie delle auto elettriche, ma anche per i magneti delle turbine eoliche, attualmente sono 10 i potenziali progetti: 3 in Portogallo, 2 in Spagna e Germania e i rimanenti 3 in Repubblica Ceca, Finlandia e Austria. Anche in Italia: Il Sole 24 Ore ha rivelato che due aziende minerarie, l’australiana Altamin e la tedesca Vulcan, hanno chiesto alla Regione Lazio le concessioni per poter sfruttare i giacimenti di litio in prossimità del lago vulcanico di Bracciano. La prima mira ai permessi di Campignano (1.200 ettari) e Galeria (2.000), mentre la seconda – che ha firmato un accordo di fornitura con Stellantis – ha già il via libera per quella di Cesano. La ricchezza mineraria della zona fu scoperta negli anni 70 da Eni ed Enel, che trivellavano alla ricerca di acqua ad alta pressione per generare elettricità. Al tempo, scrive Jacopo Giliberto, le perforazioni liberarono del vapore ricchissimo di litio: dai 350 ai 380 milligrammi per litro d’acqua, valori tra i più alti al mondo. Tuttavia il litio non aveva utilizzi industriali di particolare interesse e i pozzi (più di 800) vennero chiusi. Oggi, però, quelle aree racchiudono una risorsa troppo ghiotta per essere ignorata: la cosiddetta “salamoia” (o “brina di litio”), il fluido geotermico ricco del metallo verde che può fare la differenza nel portare a termine la transizione. È probabile che vi siano altri giacimenti nel Paese. Ed è per questo che appare urgente incrementare le attività di ricerca.

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Tags

economia Geoeconomia Materie prime litio
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AUTORI

Gianclaudio Torlizzi
T-Commodity

Image Credits (CC BY-NC 2.0): EARTHWORKS

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