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Focus Mediterraneo Allargato n.16

La politica di Biden in Medio Oriente e Nord Africa

Federico Borsari
19 maggio 2021

Con l’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca, il tema della politica estera, e in particolare quella rivolta alla regione del Medio Oriente e Nord Africa (Mena), mantiene una posizione rilevante nell’agenda della nuova amministrazione, sebbene quest’ultima rimanga inevitabilmente focalizzata – almeno nel breve-medio periodo – sulle questioni interne legate alla lotta alla pandemia e al piano di rilancio economico, anche in chiave di sostenibilità e lotta ai cambiamenti climatici. La priorità data alla dimensione interna, tuttavia, non va interpretata come un disinteresse verso gli impegni e il ruolo internazionali di Washington, bensì come una strategia fondamentale per colmare le fratture sociali e politiche del paese e ritrovare una coesione nazionale che il nuovo presidente considera premessa essenziale per una politica estera efficace[1]. Al contempo, nonostante Biden abbia già servito come vicepresidente durante i due mandati di Barack Obama, riguardo alla regione del Medio Oriente e Nord Africa (Mena) non sarebbe corretto attendersi una mera continuazione della linea di politica estera adottata da quest’ultimo, così come sarebbe impreciso e – almeno in questa fase – prematuro anticipare una completa rottura con l’approccio del predecessore Donald Trump.

Lo scenario internazionale in cui la nuova amministrazione si trova ad operare è molto diverso rispetto a cinque anni fa, quando ci fu il passaggio da Obama a Trump. I cambiamenti sono ancora più evidenti se si considera la regione mediorientale, caratterizzata da una maggiore competizione geopolitica e dalla formazione di nuovi allineamenti tra stati regionali, ma anche dalla crescente influenza di gruppi non-statuali. Si è assistito inoltre a una maggiore penetrazione di potenze internazionali, come Russia e Cina, che hanno beneficiato degli spazi lasciati dal ridotto impegno statunitense nella regione per rafforzare la propria presenza e allacciare rapporti più solidi con vari paesi (e attori) regionali, sfruttando canali di diplomazia economica – particolarmente cari a Pechino – o di supporto militare e diplomatico, prediletti da Mosca. In termini di impegno nella regione, la presidenza Biden ha già fatto capire di voler riportare in primo piano il ruolo della diplomazia all’interno di una cornice multilaterale, contrariamente all’approccio ad hoc e spesso bilaterale adottato da Trump, rinvigorendo altresì l’enfasi sulla cooperazione con gli alleati e la promozione di valori condivisi. Questo obiettivo, tuttavia, andrà perseguito attraverso un approccio calibrato e meno oneroso in termini di impegni e spesa, similmente a quanto fatto dalla gestione Trump. Nel rinnovato sostegno di Biden alla diplomazia multilaterale, peraltro, rientra anche l’impegno a riprendere i negoziati con l’Iran e riabilitare l’accordo sul nucleare (Jcpoa) siglato dall’amministrazione Obama con Teheran nel 2015 ma abbandonato da Trump appena tre anni dopo.

Nel complesso, dunque, la politica estera di Biden verso la regione Mena dovrà confrontarsi con un contesto in rapida evoluzione ma anche con i limiti operativi imposti dalle priorità strategiche che, già a partire dal noto Pivot to Asia di Obama, negli ultimi anni hanno posto in secondo piano la regione Mena a favore di un crescente impegno verso il contenimento della Cina nel teatro dell’Asia-Pacifico[2]. Quali saranno i risultati finali della politica mediorientale di Biden è ancora difficile da prevedere, ma i primi mesi di mandato offrono importanti segnali sulle possibili traiettorie che l’approccio della nuova amministrazione adotterà nella regione.

 

Il ruolo degli Usa in Medio Oriente: interessi e cambiamenti

Garantire la sicurezza delle rotte commerciali e il flusso di greggio verso i mercati occidentali sono stati i cardini della strategia americana per la regione mediorientale a partire dal secondo dopoguerra, ai quali va aggiunto il contrasto dell’influenza comunista. Con la fine della Guerra fredda e della minaccia sovietica fu proprio la protezione degli interessi energetici a indurre il presidente George Herbert Bush a intervenire militarmente alla guida di una coalizione internazionale per fermare l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein. Una decade dopo, lo spartiacque rappresentato dall’11 settembre indusse l’amministrazione di George W. Bush ad inaugurare una fase di campagne militari senza precedenti in Medio Oriente, prima in nome della lotta al terrorismo e, successivamente, allo scopo di prevenirlo tentando di “esportare” la democrazia in quegli stati, come l’Iraq, sospettati di armare e dare rifugio a gruppi terroristici. Ma gli alti costi umani ed economici sostenuti in Afghanistan e Iraq, uniti alla percezione di una crescente rivalità con la Cina nel Pacifico indussero il successore Barack Obama a ritirare le truppe dall’Iraq, siglare un accordo diplomatico con l’Iran per controllare il suo programma nucleare e promuovere un progressivo reindirizzamento strategico verso il Pacifico.

Il sostegno ai diritti umani e ai valori democratici restava certamente una priorità – come dimostrato sia dal raffreddamento dei rapporti tra l’amministrazione e Israele per la questione palestinese sia dall’intervento a sostegno delle rivolte libiche contro Muammar Gheddafi – ma fu controbilanciato dalla volontà di porre fine a guerre interminabili e ridurre l’impegno americano nella regione, come promesso da Obama durante la campagna elettorale del 2008. L’arrivo di Trump alla Casa Bianca nel 2017, tuttavia, ha sovvertito la linea del suo predecessore, a partire dal ripristino di un rapporto preferenziale con gli storici alleati degli Usa nella regione, Arabia Saudita e Israele (non a caso le tappe del suo primo viaggio presidenziale), fino al ritiro dall’accordo Jcpoa con l’Iran e l’avvio di una politica di “massima pressione” – economica e diplomatica – nei confronti di Teheran[3]. Un principio ha però accomunato le visioni di Obama e Trump riguardo al ruolo degli Usa in Medio Oriente: evitare nuove avventure militari e diminuire i costi per i contribuenti americani. A quasi quattro mesi dal suo insediamento, questo aspetto sembra caratterizzare anche la strategia per il Medio Oriente di Joe Biden, sebbene vada considerato in un quadro contraddistinto da chiare differenze con la politica della precedente amministrazione.

 

La politica estera di Biden nella regione Mena: obiettivi e interpreti

Ancor prima di diventare presidente Biden aveva già delineato i caratteri principali della sua visione di politica estera. Le posizioni espresse dall’allora candidato democratico nel corso della campagna elettorale sono, innanzitutto, radicate nella convinzione che per affrontare le attuali sfide globali sia necessario un ritorno al multilateralismo, similmente all’approccio adottato dall’amministrazione Obama. Secondo Biden, però, la riaffermazione dei valori democratici deve prima iniziare all’interno del paese, in modo che gli Stati Uniti possano riacquisire la credibilità necessaria a guidare la comunità internazionale “con la forza del proprio esempio piuttosto che la dimostrazione della propria forza”[4]. Questo implica anche la rinnovata importanza della diplomazia e del dialogo a scapito dell’uso della forza, reputata accettabile solo per salvaguardare gli interessi vitali del paese e per chiare ragioni umanitarie, a patto che l’obiettivo sia definito e conseguibile e che ci sia, ove necessario, il consenso del Congresso[5]. Queste idee formano la cornice valoriale all’interno della quale le scelte del nuovo presidente, incluse quelle in Medio Oriente, dovrebbero svilupparsi.

Come per Obama e Trump, però, anche per Biden il Medio Oriente non sembra essere in cima all’agenda di politica estera. Durante la campagna elettorale, il futuro segretario di Stato Anthony Blinken aveva sottolineato come, nel complesso, la nuova amministrazione intenda dedicare meno tempo e allocare minori finanze rispetto alla regione, affermando invece che la Cina e i rapporti con Pechino sono ormai diventati le priorità nei calcoli strategici della Casa Bianca[6]. Questo significherà soprattutto porre fine alle “forever wars”, su tutte quella in Afghanistan, e continuare il trend di riduzione dell’impegno militare inaugurato da Obama[7](e continuato da Trump) senza, tuttavia, comprometterne la capacità di proiezione e deterrenza su cui si è fondata la politica regionale di Washington dal secondo dopoguerra ad oggi. Nell’esprimere la sua visione di politica estera prima di essere eletto, infatti, lo stesso Biden aveva confermato che la presenza militare Usa nella regione sarà strutturata attorno al sostegno e al potenziamento di alleati locali attraverso l’impiego combinato di intelligence e forze speciali[8]. Un copione già visto in Siria nella collaborazione tra il contingente americano e formazioni curde, o in Iraq attraverso il sostegno aereo e di intelligence all’esercito iracheno e ai peshmerga nella lotta allo Stato islamico, ma il cui destino rimane incerto dopo la decisione di Baghdad di ottenere il ritiro delle truppe Usa entro il 2021 a seguito dell’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani. La sfida per la nuova amministrazione, dunque, sarà quella di mantenere quanta più influenza possibile sugli attori e sulle dinamiche regionali al fine di ridurre la conflittualità in un momento di ridefinizione geopolitica e di crescente riluttanza, tra i decisori americani, a investire nella regione come in passato.

Quattro macroaree sembrano spiccare nell’agenda del nuovo presidente. La prima riguarda i principi stessi alla base della politica estera americana e prevede un vero e proprio “spostamento valoriale” necessario a riportarne al centro i diritti umani, rompendo così con l’approccio transazionale e unicamente dedito al self-interest della presidenza Trump. Particolarmente importante è l’impegno di Biden verso la lotta alla corruzione, considerata un interesse fondamentale per la sicurezza del paese, a cui si aggiungono la difesa da e il contrasto all’autoritarismo. In quest’ottica rientrano la promessa di organizzare e ospitare un summit globale per la democrazia entro il primo anno di mandato[9] ma anche la decisione di pubblicare il dossier preparato dall’intelligence Usa sull’omicidio del giornalista Jamal Kashoggi, in cui è affermata la responsabilità del principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman. La seconda area riguarda la ricostituzione della storica partnership con l’Europa, non solo in virtù di interessi coincidenti nella regione ma anche dell’effetto positivo che, nei piani di Biden, questa eserciterebbe sul consolidamento delle relazioni transatlantiche. La terza area è particolarmente complessa e concerne il rapporto con l’Iran e in primis la questione del suo programma nucleare. La decisione di Trump di abbandonare l’accordo siglato da Obama nel 2015 e usare un approccio intransigente nei confronti di Teheran ha lasciato Biden di fronte ad una frattura diplomatica e geopolitica molto profonda che ha rischiato a più riprese di sfociare in un conflitto aperto. La disponibilità della nuova amministrazione a riaprire il dialogo con l’Iran e rientrare nel Jcpoa, qualora Teheran tornasse ad osservarne i termini, tuttavia, non implica un ritorno alla situazione lasciata dal Segretario di Stato John Kerry sei anni fa. Per gli Stati Uniti, infatti, ci sono questioni cruciali riguardanti l’Iran, come il suo programma missilistico e le attività destabilizzanti – incluso il sostegno economico e militare a gruppi non statuali nella regione – che andrebbero incluse all’interno dei negoziati. Questo rispecchierebbe anche le esigenze di alleati regionali come Arabia Saudita, Israele ed Emirati Arabi Uniti, allarmati dalle attività iraniane, ma implicherebbe la necessità di ulteriori negoziati in un momento in cui, per entrambe le parti, il costo politico di nuove concessioni potrebbe rivelarsi molto alto. I recenti colloqui – seppur indiretti – a Vienna insieme ai firmatari del Jcpoa hanno evidenziato, nelle parole di Blinken, “la serietà di intenti da parte degli Usa a ritornare ai termini raggiunti nel 2015”, ma non hanno chiarito quale e quanta sia la disponibilità della controparte iraniana[10]. L’ultima area prioritaria riguarda la necessità di porre fine alle “guerre infinite” nella regione, in linea con la politica già adottata da Trump, e che ha avuto la prima conferma con l’annuncio del ritiro dall’Afghanistan entro il prossimo 11 settembre. La volontà di ridurre sensibilmente l’impegno militare ha anche un risvolto politico basato sull’idea che la diplomazia debba essere il primo strumento del potere americano, lasciando l’uso della forza solo come ultima risorsa. Oltre all’Afghanistan, questo principio è già stato applicato ad altri teatri come lo Yemen, dove l’amministrazione ha cessato il proprio sostegno alle operazioni militari della coalizione saudita, sospeso la vendita di armamenti a Riyadh e nominato un nuovo rappresentante speciale per sostenere il processo di pace guidato dall’Onu, e l’Iraq, dove l’amministrazione ha reagito in maniera selettiva – attraverso bombardamenti mirati – ai frequenti attacchi condotti da milizie filo-iraniane. La centralità della diplomazia, poi, sarà il filo conduttore nella gestione del dossier israelo-palestinese e del delicato processo di normalizzazione lanciato in Libia sotto egida Onu.

Le scelte di politica estera sono frutto del tradizionale esercizio di consultazione e confronto tra il presidente e un’ampia squadra di consiglieri e collaboratori. Oltre alla figura del Segretario di Stato Blinken, esperto diplomatico già passato per vari incarichi di rilievo all’interno del dipartimento di Stato e del Consiglio di Sicurezza Nazionale (Nsc) durante le presidenze di Bill Clinton e Barack Obama, spiccano l’inviato speciale per lo Yemen Tim Lenderking e il direttore degli affari politici e militari per lo Yemen al Nsc K. C. Evans, che potrebbero giocare un ruolo importante dietro le quinte nel favorire un accordo di pace nel paese. La delicata questione israelo-palestinese è invece seguita da Julie Sawyer, già collaboratrice dell’inviato speciale per i negoziati di pace tra israeliani e palestinesi con Obama, la quale è stata nominata direttrice di questo dossier al Nsc[11]. Sempre all’interno del Nsc, che svolge un ruolo di primo piano (e privilegiato) nel consigliare il presidente in materia di politica estera, sono coinvolti, rispettivamente come direttori per l’Iran e per la Siria-Iraq, anche Sam Parker e Zehra Bell, i quali parlano fluentemente l’Arabo e hanno grande esperienza come diplomatici nella regione. Altre figure che hanno orbitato attorno all’amministrazione Obama o che hanno già lavorato con Biden in precedenza sono entrate anche nella squadra Medio Oriente del Dipartimento di Stato. Tra queste vanno ricordati Daniel Benaim nel ruolo di vice-sottosegretario per la Penisola arabica e Robert Malley come inviato speciale per l’Iran. Benaim aveva lavorato come esperto presso il Center for American Progress, considerato vicino a posizioni democratiche, mentre Malley era stato un capo negoziatore per l’accordo sul nucleare con l’Iran, ragione per cui la sua nomina è stata fortemente osteggiata dai repubblicani[12]. Altri ruoli influenti per il processo decisionale nel suo complesso, poi, sono quelli presso il Dipartimento per la Difesa. Il Sottosegretario per la politica Colin Kahl, ad esempio, si è contraddistinto per le frequenti critiche alla politica dell’ultima amministrazione, esprimendosi a favore di una riapertura dei negoziati con l’Iran nonostante sia considerato un ardente sostenitore della partnership militare con Israele. Viceversa, la vice-sottosegretaria per il Medio Oriente Dana Stroul si era detta contraria ad una riduzione del regime sanzionatorio verso Teheran anche quando il paese era martoriato dalla pandemia[13], spingendo invece a favore di un approccio maggiormente incentrato sul soft power per paesi come l’Iraq e il Libano, dove pure è forte l’influenza iraniana[14]. Da ultimo, il Segretario alla Difesa, Generale Lloyd Austin, è noto per il suo convinto supporto al mantenimento di una robusta presenza militare in Medio Oriente e non è escluso, quindi, che la sua opinione possa controbilanciare o addirittura limitare la politica militare di basso profilo voluta dal presidente nella regione. Alla luce di queste nomine, dunque, emerge nitidamente la volontà da parte di Biden di circondarsi di collaboratori ed esperti che rafforzino e portino avanti un approccio basato sulla diplomazia multilaterale e sui valori tipici della tradizione di politica estera propria del partito democratico.

 

I primi 100 giorni alla Casa Bianca: trend nella politica estera di Biden verso la regione Mena

Nei primi mesi del suo mandato, il presidente Biden ha lanciato alcuni segnali di cambiamento nella politica mediorientale statunitense, sebbene per diversi aspetti la sua amministrazione si sia finora posta in linea di continuità con la precedente. Il principale elemento di rottura è senza dubbio rappresentato dal tentativo di riprendere il negoziato sul nucleare iraniano e di rientrare nel Jcpoa (si veda Focus paese Iran).

 

Iraq

L’Iraq rimane uno dei principali teatri strategici per gli Stati Uniti sia in chiave di lotta al terrorismo che di contenimento dell’Iran. Proprio sul suolo iracheno si sono consumati gli scontri tra Washington e Teheran, o le milizie ad essa legate, incluso il primo bombardamento ordinato in febbraio dal nuovo presidente contro il gruppo filoiraniano Khathaib Hezbollah in risposta all’ennesimo lancio di razzi contro le basi che ospitano le truppe americane presenti nel paese. Il ritiro di queste ultime, il cui numero si attesta intorno ai 2.500 effettivi, è ancora al centro del dialogo strategico per la sicurezza tra Washington e Baghdad, di cui il terzo appuntamento si è tenuto lo scorso aprile. Al momento, tuttavia, i soldati americani sembrano destinati a restare in Iraq, dove operano dal 2014 su richiesta del governo iracheno nell’ambito della lotta contro lo Stato islamico, nonostante il parlamento iracheno abbia formalmente richiesto il loro ritiro con una risoluzione[15] seguita all’uccisione dell’influente generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad a inizio 2020. Il fatto che l’esecutivo guidato da Mustafa al-Kadhimi abbia confermato l’intenzione di mantenere la partnership strategica con gli Usa in materia di sicurezza, soprattutto in termini di addestramento e sostegno logistico e di intelligence alle forze irachene, e di estenderla anche ad altri ambiti come l’economia e l’istruzione[16], potrebbe screditare l’azione destabilizzante delle milizie pro-Iran a livello interno, giocando a favore di Biden nella più ampia partita negoziale disputata con l’Iran. Per gli Usa, il mantenimento di una presenza in Iraq non sembra al momento in discussione[17], considerando anche il solido legame con le autorità curde e le conseguenze negative che un’uscita di scena avrebbe sull’efficienza e capacità operative delle forze irachene, già alle prese con un’escalation di attacchi lanciati dalle cellule affiliate allo Stato islamico.

 

Questione israelo-palestinese e i rapporti con Israele

Sul dossier Israele-Palestina un segnale di cambiamento della nuova amministrazione rispetto alla precedente. riguarda il rinnovo dei finanziamenti all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa), che Donald Trump aveva sospeso[18], pari a 200 milioni di dollari e in parte destinati a sostenere le attività dell’ufficio del coordinatore per la sicurezza in Cisgiordania. Al contempo, tuttavia, l’amministrazione ha chiarito che non intende revocare il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme o il riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan[19], disposti da Trump. Se la soluzione dei due stati[20], già sostenuta durante la presidenza Obama, è quella perseguita da Biden, secondo diversi analisti, non ci sarebbero sostanziali cambiamenti ma piuttosto un ritorno ad un approccio volto alla gestione del conflitto più che ad una sua risoluzione[21]. Un elemento da tenere in considerazione per la nuova amministrazione riguarda la crescente disillusione dei palestinesi nei confronti di qualsiasi tipo di cambiamento, unita alla percezione che Washington continui a perseguire una politica “di due pesi e due misure”. Questo è emerso di recente in seguito all’espulsione di alcune famiglie palestinesi dal quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme est e alla dura repressione attuata dalla polizia israeliana contro i manifestanti palestinesi, culminata con un raid alla moschea di al-Aqsa, per il quale Washington ha chiesto ad entrambe le parti di fermare immediatamente la violenza e ritornare al dialogo, senza ulteriori condanne. Vari attivisti palestinesi hanno definito le parole americane “un flagrante disinteresse” nei confronti della “politica di occupazione e apartheid” condotta da Israele[22], evidenziando le grandi difficoltà che la nuova amministrazione dovrà affrontare su questo fronte.

Al contempo, le relazioni con Israele rimangono buone, sebbene con alcuni malumori da parte israeliana per l’approccio più critico adottato dal nuovo presidente verso le politiche di Israele nei confronti dei palestinesi. Non è passato inosservato, ad esempio, il fatto che Biden abbia aspettato quasi un mese dal suo insediamento per chiamare il premier israeliano Banjamin Netanyahu[23]. Questa inedita attesa può essere letta sia come una minore rilevanza del dossier mediorientale nell’agenda americana, sia come un segnale di maggiore freddezza nei confronti del primo ministro israeliano[24]. Al di là di questo, comunque, va segnalato il buon esito della chiamata, durante la quale i due leader hanno concordato su molti aspetti. Peraltro, Biden ha espresso la sua soddisfazione per la normalizzazione tra Israele ed alcuni stati arabi. Nel complesso, la riattivazione degli aiuti ai palestinesi non significa però che la nuova amministrazione abbia attuato un cambio di politica radicale. A inizio marzo, ad esempio, sia la Vicepresidente Usa Kamala Harris che il Segretario di Stato Blinken, avevano espresso il loro dissenso verso la decisione della Corte Penale Internazionale dell’Aia di aprire un’inchiesta per possibili crimini di guerra nei Territori palestinesi[25]. L’eventualità di investigare anche sulla condotta dell’esercito israeliano ha provocato la reazione delle autorità americane, le quali hanno ribadito che la Corte non ha giurisdizione sul personale israeliano, non avendo ricevuto il permesso dal governo di Tel Aviv. I motivi di maggior disaccordo tra la nuova amministrazione e Israele ruotano però attorno alla volontà Usa di riaprire i negoziati con l’Iran e rientrare, possibilmente, nell’accordo sul nucleare. Israele è ritenuto dietro ad alcuni attacchi contro obiettivi e infrastrutture legate al programma nucleare iraniano negli ultimi mesi, incluso quello all’impianto di Natanz l’11 aprile scorso, che dimostrano la disponibilità di Israele ad usare la forza qualora la diplomazia non riesca a interrompere i progressi iraniani, e aggiungono ulteriori difficoltà agli attuali colloqui diplomatici a Vienna tra l’Iran e i paesi firmatari del Jcpoa, inclusi gli Usa.

 

I rapporti con l’Arabia Saudita e il conflitto in Yemen

Anche nei confronti dello storico alleato saudita, l’atteggiamento di Biden non può dirsi in linea con quello del suo predecessore, che aveva sostenuto in maniera incondizionata il principe ereditario e nuovo uomo forte di Riyadh, Mohammed bin Salman. In questo senso va letta la duplice decisione di interrompere il sostegno alle operazioni militari condotte dalla coalizione a guida saudita contro il gruppo Ansarallah (comunemente noto come Houthi) in Yemen, inclusa la vendita di armi necessarie per questa campagna, e di ravvivare il processo diplomatico sotto egida delle Nazioni Unite tramite il lavoro del nuovo inviato per lo Yemen Tim Lenderkin. Al contempo, Biden ha deciso di togliere gli Houthi dalla lista delle organizzazioni terroristiche[26], una mossa che va letta sia in ottica di dimostrare a Riyadh che il supporto Usa in Yemen non sarà incondizionato, sia per lanciare a Teheran un segnale di apertura che possa facilitare nuovi negoziati. Nonostante queste scelte, la nuova amministrazione è stata fortemente criticata per non aver sanzionato Mohammed bin Salman anche dopo che un rapporto redatto dall'intelligence Usa, reso pubblico da Biden lo scorso febbraio, lo collegava direttamente all'uccisione del giornalista Jamal Khashoggi, avvenuta all’interno del consolato saudita di Istanbul nell’ottobre 2018[27]. Similmente, forti dubbi sono stati espressi anche sulla reale efficacia delle scelte relative al dossier yemenita, dove gli Houthi hanno sfruttato l’apertura diplomatica di Washington e la fine del sostegno alla coalizione saudita per lanciare una nuova offensiva militare sul fronte di Marib che ha aggravato una situazione umanitaria già insostenibile e allontanato la possibilità di un accordo di pace[28]. Forti dell’iniziativa sul campo, gli Houthi hanno di fatto assunto una posizione di forza nel paese che sta disincentivando il ritorno alla diplomazia, come dimostra il loro recente rifiuto di incontrare l’inviato speciale Onu Martin Griffiths in Oman[29]. Se, da un lato, l’amministrazione Biden sta cercando di rivedere la natura e i termini della partnership con Riyadh, dall’altro la realtà della guerra yemenita sembra per il momento complicare in maniera significativa la politica del neopresidente, non escludendo il rischio di una frattura con la monarchia saudita, alleato fondamentale per la lotta al terrorismo e per controbilanciare le ambizioni iraniane, che potrebbe giocare a favore di altri attori, come Russia o Cina, già in buoni rapporti con il regno.

 

Libia

Durante l’amministrazione Trump la Libia non aveva un posto rilevante nell’agenda di politica estera, con il presidente repubblicano che aveva optato per un approccio bilanciato ma anche molto ambiguo per interfacciarsi con i problemi e gli attori nel paese, alternando una narrativa di sostegno al governo tripolino riconosciuto dall’Onu al dialogo diretto – e talvolta simpatetico – con il fronte rivale guidato dal generale Khalifa Haftar, sostenuto anche da Emirati Arabi Uniti ed Egitto. Diversamente, l’amministrazione Biden sembra intenzionata a rinvigorire il proprio impegno diplomatico nel paese appoggiando in maniera netta il processo di transizione politica sostenuto dalle Nazioni Unite, che ha favorito il raggiungimento di un cessate il fuoco e la creazione di un nuovo – seppur fragile – governo di unità nazionale che dovrebbe condurre il paese alle elezioni parlamentari e presidenziali del 24 dicembre. La prima decisione di rilievo presa da Biden per il dossier libico è giunta il 10 maggio, con la nomina di Richard Norland – già ambasciatore nel paese dal 2019 – come inviato speciale per la Libia[30], riattivando così una posizione che era rimasta vacante durante i quattro anni di Trump. La presenza di un inviato speciale indica che qualcosa è cambiato nell’approccio statunitense verso la Libia. Il motivo risiede in due ragioni specifiche. Innanzitutto, la Libia rappresenta un dossier geopolitico strategico per numerosi paesi alleati di Washington, tra cui l’Italia, ma anche Francia, Egitto e Turchia, seppur per motivi diversi e in parte contrastanti. La rinnovata attenzione di Washington, quindi, va letta come un segnale di attivismo diplomatico per favorire il dialogo tra questi attori e rinvigorire le relazioni bilaterali, sostenendo al contempo il processo negoziale libico. In secondo luogo, ma non meno importante, Biden vede nella presenza di mercenari russi del gruppo Wagner nell’est del paese una minaccia concreta alla stabilità della regione oltre che un rafforzamento di Mosca vicino al fianco sud della Nato. La Russia rimane infatti uno dei principali competitor degli Usa, lasciando presagire un impegno costante del nuovo presidente affinché tutte le forze straniere, e specialmente quelle russe, lascino la Libia, come già invocato esplicitamente dal segretario di Stato Blinken a fine marzo[31].

 

Turchia

L’amministrazione Biden ha ereditato una difficile relazione con la Turchia. Sono diversi i dossier che negli ultimi anni hanno posto i due paesi della Nato su fronti opposti, e oggi Ankara appare come un alleato sempre più complicato da gestire. “Dove sta andando la Turchia” è un interrogativo che più volte è risuonato a Washington e all’interno dell’Alleanza Atlantica di fronte alle scelte di politica estera di Ankara e in maggior misura dopo che il governo turco ha deciso di acquistare il sistema di difesa missilistico S-400 dalla Russia nel 2019. Proprio quest’ultima decisione è valsa alla Turchia prima la sospensione dal programma per la produzione degli F-35 e dopo sanzioni americane nei confronti dell’ente turco che si occupa degli acquisti per la difesa (Presidency for the defense industry – SSB) per violazione del Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act (Caatsa). È forte infatti il timore statunitense di eventuali interferenze del sistema russo e infiltrazioni nei sistemi Nato. Approvate sotto l’amministrazione Trump a dicembre 2020 prima di passare il testimone, le sanzioni hanno finora avuto un impatto limitato, non incidendo direttamene su un’economia turca in affanno. Tuttavia, il monito sembra essere giunto forte e chiaro al di là dell’Atlantico.

In questo contesto, Biden si è posto in una linea di continuità. Allo stesso tempo però la sua presidenza ha segnato una rottura con la precedente amministrazione nella misura in cui ha posto l’accento su democrazia e diritti umani come cardini della sua politica estera. Già all’indomani della sua elezione era evidente la presa di distanza dalle relazioni personali che il suo predecessore aveva intessuto con gli autocrati della regione mediorientale e dall’acquiescenza di Trump nei confronti di politiche assertive. Il presidente turco Erdoğan ha atteso per oltre tre mesi la chiamata di Biden e nel momento in cui è arrivata si è rivelata un boccone amaro. Biden infatti è andato dove altri presidenti prima di lui non si erano spinti, e cioè al riconoscimento come genocidio del massacro degli armeni durante la Prima guerra mondiale, aggiungendo così un ulteriore elemento di tensione a una relazione già critica. Se a livello retorico la reazione turca non si è fatta attendere, di fatto difficilmente la Turchia potrà permettersi azioni concrete nei confronti degli Stati Uniti. In questa fase, infatti, appare evidente che sia Ankara ad avere più bisogno di Washington e di ciò sembra essere consapevole il presidente Biden, che pur riconoscendo l’importanza della relazione con la Turchia, non ha mancato di esercitare pressioni nei confronti del difficile alleato turco per indurlo a più miti consigli.

Dal canto suo Erdoğan, in calo di consensi all’interno di fronte al progressivo deterioramento dell’economia turca, non si trova nelle condizioni di potere tirare troppo la corda con gli Stati Uniti. Negli ultimi mesi sono stati evidenti i tentativi di ricalibrare le relazioni con Washington anche attraverso il rinnovato, ma complesso, riavvicinamento con l’Unione europea (si veda Focus paese Turchia) cui si aggiungono gli sforzi di normalizzazione delle relazioni con i paesi della regione, dall’Egitto all’Arabia Saudita.

 

Siria

Come per Obama e Trump, la Siria potrebbe rivelarsi un puzzle particolarmente complesso per la nuova amministrazione. L’indecisione di Obama sulla questione delle armi chimiche fu cancellata dalla risolutezza del successore, il quale decise di bombardare il regime siriano poco dopo essere entrato in carica, lasciando però un segno e un impatto di fatto simbolici che non hanno alterato il corso del conflitto, attualmente in una fase di stallo tra il regime di Bachar al-Assad e l’ultima sacca di resistenza nella provincia nord-occidentale di Idlib. Nonostante il discutibile approccio usato da Trump in politica estera, i suoi dubbi sulla necessità di restare in Siria erano legittimi e fondati sulla percezione che, in seguito alla sconfitta territoriale di IS, gli Usa non avessero più interessi tali da richiedere una presenza militare nel paese. Questo si è tradotto nella controversa decisione di ritirarsi presa nell’ottobre 2019, che in seguito a pressioni interne all’amministrazione, però, è stata riformulata per garantire il mantenimento di un contingente incaricato di “proteggere il petrolio” nel nord est del paese, nonostante l’obiettivo annunciato dal Pentagono fosse la lotta al terrorismo[32]. Biden, dunque, avrà il difficile compito di chiarire e definire meglio gli obiettivi americani, e valutare se è nell’interesse di Washington mantenere una presenza militare nel paese. Per il momento la nuova amministrazione non ha alterato il corso di quella precedente, con alcune centinaia di soldati ancora dispiegati nel nord-est con compiti di stabilizzazione e lotta al terrorismo. Biden ha altresì rinnovato per un altro anno il pacchetto sanzionatorio unilaterale contro il regime, affermando che gli Stati Uniti continueranno a lavorare per ottenere un cessate il fuoco nazionale, l’accesso umanitario per la popolazione e l’avvio di un processo politico, in linea con la risoluzione Onu 2254[33]. Come in altri teatri regionali, Biden dovrà bilanciare l’importanza dei valori e dei principi alla base della sua visione di politica estera con le reali possibilità e necessità degli Stati Uniti in un momento di crescente volatilità geopolitica nella regione. Per imprimere un cambio di passo nel conflitto siriano, qualora questo sia il reale obiettivo della Casa Bianca, sarà però necessario riattivare la diplomazia americana con un approccio a tutto campo, che tenga in considerazione gli interessi e le voci di alleati e rivali, mettendo i paletti dove necessario: non transigere sui crimini umanitari commessi dal regime, garantire la sicurezza di Israele e favorire un accordo di lunga durata tra la Turchia e i curdi. Vista l’attuale situazione sul campo, le possibilità che questa prospettiva possa realizzarsi rimangono al momento remote, lasciando invece presagire un proseguimento dell’attuale status quo.

 

Conclusioni

Sotto vari punti di vista, per il Medio Oriente e il Nord Africa l’approccio di Biden sembra riproporre un ritorno alla visione e agli obiettivi che avevano contraddistinto l’era obamiana, nonostante il contesto geopolitico della regione abbia subito mutamenti negli ultimi anni. Come l’ex presidente democratico, Biden ha infatti dichiarato di voler ridurre il numero di soldati nella regione e di concludere le guerre che per troppo tempo hanno impegnato gli Usa nella regione, iniziando dall’Afghanistan, dove invece Obama aveva ordinato l’invio di ulteriori truppe proprio contro il parere del suo vice[34]. Questo non significa, però, che Biden voglia smantellare l’apparato militare e di sicurezza creato dagli Stati Uniti in oltre settant’anni, bensì che è necessaria una razionalizzazione della spesa e degli impegni assunti nella regione, anche attraverso un maggior coinvolgimento degli alleati e dei partner, lasciando quindi che siano soprattutto i paesi regionali a trovare gli incentivi per appianare le proprie divergenze e risolvere i conflitti. Non a caso, infatti, l’attuale amministrazione si è espressa favorevolmente a proposito dell’accordo di normalizzazione raggiunto tra Israele e alcuni paesi arabi, su tutti Emirati Arabi Uniti e Bahrain, e accoglierebbe con favore un ulteriore ampliamento di tale processo. Se si considera l’attuale congiuntura geopolitica, in cui l’impatto economico della pandemia ha esacerbato i problemi e le criticità interni di molti paesi, inclusi gli Stati Uniti, e aumentato il costo economico e politico di nuovi interventi all’estero, è lecito aspettarsi che questa attitudine alla moderazione possa continuare ad avere un peso rilevante nelle decisioni di politica estera regionale della nuova amministrazione. Allo stesso tempo, i principi della politica di Biden puntano verso la promozione dei diritti umani e dei valori democratici. L’enfasi sull’importanza della democrazia e del modello multilaterale, il chiaro monito a partner come Arabia Saudita e Turchia sulla necessità di rispettare i diritti umani si inseriscono in questo solco. A differenza della visione obamiana, però, che pure abbracciava questi principi, quella di Biden avrebbe l’ambizione di avviare un processo trasformativo[35], come dimostra il forte impegno dell’amministrazione per favorire la pace in Yemen, nonostante innumerevoli difficoltà e ingerenze esterne.

 

[1]The power of America’s example: the Biden plan for leading the democratic world to meet the challenges of the 21st Century, joebiden.com..

[2] N. Bertrand, L. Seligman, “Biden deprioritizes the Middle East”, Politico, 22 febbraio 2021. 

[3] Sulle scelte di politica estera di Obama e Trump in Medio Oriente si vedano rispettivamente: F. Gerges, Obama and the Middle East: the end of America’s moment?, Palgrave MacMillan, New York, 2021; M. Doran, The Trump Doctrine in the Middle East, in S.A. Renshon, P. Suedfeld (ed.), The Trump Doctrine and the Emerging International System, Palgrave Macmillan, 2020, pp. 269-280.

[4] “Transcript: Joe Biden's victory speech”, The Washington Post, 7 novembre 2020.

[5] M. Astor, D. Sanger, “Joseph R. Biden Jr. – Foreign Policy”, The New York Times, Dicembre 2019.

[6]Transcript: Dialogues on American Foreign Policy and World Affairs: A Conversation with Former Deputy Secretary of State Antony Blinken, Hudson Institute, 9 luglio 2020.

[7] C. Parsons, W.J. Hennigan, “President Obama, who hoped to sow peace, instead led the nation in war”, Los Angeles Times, 13 gennaio 2017.

[8] J.R. Biden, Why America Must Lead Again, Foreign Affairs, Vol. 99, N. 2, marzo-aprile 2020.

[9] D. Adler and S. Wertheim, Biden wants to convene an international 'Summit for Democracy'. He shouldn't, The Guardian, 22 dicembre 2020.

[10]Secretary Antony J. Blinken’s interview with Justin Webb of BBC Radio 4, U.S. Department of State, 5 maggio 2021.

[11] J. Detsch, R. Gramer, “Meet Biden’s Middle East Team”, Foreign Policy, 5 marzo 2021.

[12] Ibidem.

[13]K. Bauer, D. Stroul, “Sanctions relief isn't necessary to assist Iran's coronavirus response”, The Hill, 31 marzo 2021.

[14] M. Montgomery, “Meet the Biden Administration’s Middle East Policy Makers”, Arab Center Washington DC, 18 marzo 2021.

[15] “Iraqi parliament passes resolution to end foreign troop presence” Reuters, 5 gennaio 2020.

[16] H. Ali Ahmed, “Where will new round of strategic talks with US take Iraq?”, Al-Monitor, 7 aprile 2021.

[17] M. Myers, “‘We’re going to stay in Iraq,’ says top US Middle East commander”, Military Times, 22 aprile 2021.

[18] O. Holmes, “Biden restores $200m in US aid to Palestinians slashed by Trump”, The Guardian, 8 aprile 2021.

[19] L. Kelly, “Blinken affirms plan to keep US embassy in Jerusalem”, The Hill, 19 gennaio 2021.

[20] “Antony Blinken says two-state solution is best for Israeli-Palestinian conflict”, The National, 23 febbraio 2021.

[21] Si vedano, ad esempio, Ali Harb, “Biden at 100 days: Restoring the pre-Trump 'normal' on Israel-Palestine”, Middle East Eye, 29 aprile 2021; T. O Falk, “Analysis: Why Joe Biden will not change Palestinian lives”, Al Jazeera, 17 aprile 2021.

[22] A. Harb, “Jerusalem: Biden administration's 'bothsidesism' angers Palestinians”, Middle East Eye, 9 maggio 2021.

[23] R. Ayyub, M. Spetalnick, Biden makes first call to Israel's Netanyahu after delay, Reuters, 17 febbraio 2021.

[24] A. Gearan, Biden’s relationship with Israel shaping up to be less cozy than his predecessors’, The Washington Post, 17 aprile 2021.

[25]US opposes ICC war crimes probe, citing support for Israel, Al Jazeera, 4 marzo 2021; U.S. opposed to ICC probe of Israel, Harris tells Netanyahu, Reuters, 5 marzo 2021.

[26] L. Jakes, E. Schmitt, Biden Reverses Trump Terrorist Designation for Houthis in Yemen, The New York Times, 5 febbraio 2021.

[27]Assessing the Saudi Government's Role in the Killing of Jamal Khashoggi, Office of the Director of National Intelligence, 11 febbraio 2021.

[28] A. Nagi, B. Al-Saif, Biden in Yemen: When “End the War” Brings More Wars, ISPI Commentary, 26 Aprile 2021.

[29]US: Houthis spurned opportunity by shunning UN Yemen envoy, Reuters, 7 maggio 2021.

[30]U.S. names ambassador Richard Norland as special envoy for Libya, Reuters, 10 maggio 2021.

[31]Secretary Blinken’s Call with Libyan Interim Prime Minister Dabaiba, Press Release, U.S. Department of State, 22 marzo 2021.

[32] D. Brown, “Trump says U.S. left troops in Syria 'only for the oil,' appearing to contradict Pentagon”, Politico, 13 novembre 2019.

[33]Notice on the Continuation of the National Emergency with Respect to the Actions of the Government of Syria, The White House, May 6, 2021.

[34] P. Barker, “How Obama Came to Plan for ‘Surge’ in Afghanistan”, The New York Times, 5 dicembre 2009.

[35] A. Burns, “Seeking: Big Democratic Ideas That Make Everything Better”, The New York Times, 17 maggio 2020.

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