Dal 1994 il Sud Africa ha fatto sentire il proprio peso all’interno dello scenario internazionale più di quanto in realtà tale peso contasse, grazie alla statura morale derivante dalla transizione pacifica a un regime democratico e dalla politica di riconciliazione di Mandela. I valori fondanti del paese si sono tradotti, all’esterno, in una politica estera caratterizzata con coerenza per 16 anni da un marcato idealismo, talvolta in tensione con interessi di altra natura.
Il nuovo Sud Africa
«I celebrate today the fact of South Africa’s exceptionalism. We are the only large, ethnically diverse and resource-rich African country to remain a free democracy». Così il 9 febbraio 2009 l’ex leader dell’opposizione Tony Leon concludeva in Parlamento il suo discorso di addio alla politica. L’eccezionalità di cui parla Leon è stata un elemento importante nel fare del Sud Africa democratico un influente attore internazionale, più di quanto la sua dimensione, le sue condizioni interne e la sua importanza strategica avrebbero indotto a pensare nel 1994.
Determinante in questa capacità di farsi valere è stata la statura morale che ha permesso di creare per il Sud Africa la pacifica transizione dal regime dell’apartheid a quello democratico: una rivoluzione incruenta, avviata con il famoso discorso di apertura del Parlamento dell’allora presidente del Sud Africa F.W. De Klerk il 2 febbraio 1990, portata a compimento con le prime elezioni inclusive del maggio 1994 e sviluppatasi quindi nella politica di riconciliazione politica, ma anche economica e sociale, del suo primo presidente non bianco Nelson Mandela (1994-1999).
Anticolonialismo ed egualitarismo
Il successo di tale transizione è stato fortemente influenzato dalla cultura politica egualitaria dell’African National Congress, movimento di liberazione nazionale e poi partito di maggioranza assoluta, forgiato in decenni di lotta politica contro la segregazione. Tale cultura è stata anche la base sulla quale sono state edificate le linee portanti della politica estera del paese, il quale, nonostante i suoi travagli interni, ha compiuto rapidamente scelte fondamentali che, in misura non minore rispetto al mutamento di regime politico, hanno contribuito a dargli notevole peso internazionale: sostegno al multilateralismo, deciso impegno in Africa e promozione dei diritti umani nel mondo.
Questa cultura politica imperniata su un principio di eguaglianza, da perseguirsi non solo in un sistema politico interno, ma anche a livello internazionale, con una ristrutturazione dell’ordine globale simile a quella realizzata al suo interno dal Sud Africa democratico, è stata chiaramente espressa in due discorsi emblematici di due tra i più importanti leader sudafricani. In entrambi vi è una forte tensione ideale.
Il primo è quello pronunciato da Mandela il giorno del suo rilascio (11 febbraio 1990), che si chiude con una citazione di se stesso al processo del 1964: «I have fought against white domination and I have fought against black domination. I have cherished the ideal of a democratic and free society in which all persons live together in harmony and with equal opportunities. It is an ideal which I hope to live for and to achieve. But if needs be, it is an ideal for which I am prepared to die».
Il secondo è l’allocuzione «I am an African», pronunciata l’8 maggio 1996 dall’allora vice presidente Thabo Mbeki in occasione dell’adozione della nuova Costituzione sudafricana da parte dell’Assemblea Costituente. Si tratta di un discorso cospicuo perché sancisce che il Sud Africa è di chi ci vive e quindi pure dei bianchi di origine europea, e fornisce così una base ideale alla politica di riconciliazione. Ma lo è anche perché pone le basi della futura dottrina del Rinascimento Africano – cioè dell’esigenza di spostare l’Africa dalla periferia al centro dei processi decisionali globali – che sarà una delle linee principali della politica estera del governo Mbeki (1999-2008): «The dismal shame of poverty, suffering and human degradation of my continent is a blight that we share. The blight on our happiness that derives from this and from our drift to the periphery of the ordering of human affairs leaves us in a persistent shadow of despair ».
L’apparente svolta del biennio in Consiglio di Sicurezza
Il primo gennaio del 2007 il Sud Africa è entrato per un biennio nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Le aspettative erano elevate e ci si attendeva che in questo periodo il paese avrebbe espresso al massimo grado i valori e lo spirito della sua esperienza democratica. Tanto più fortemente l’opinione pubblica internazionale è rimasta colpita dalla posizione assunta dal Sud Africa a proposito di alcune Risoluzioni (in particolare quelle contro Iran, Myanmar, Zimbabwe e quella sullo stupro come crimine di guerra) che tale spirito sono sembrate negare.
Certo, questo non ha impedito che ancora l’11 novembre 2009 l’Onu istituisse il Nelson Mandela International Day (il 18 luglio, giorno della sua nascita): un segnale del persistente valore etico del Sud Africa (e del suo ex presidente). Tuttavia, l’esperienza in Consiglio di Sicurezza ha mostrato un’immagine imprevista del Sud Africa, che è generalmente apparsa in contraddizione con la tensione morale che informa la sua politica e con i valori di eguaglianza e democrazia che il paese rappresenta. In realtà, a ben vedere, si può scorgere nel comportamento del Sud Africa una sostanziale fedeltà alle scelte fondamentali di politica estera compiute subito dopo il 1994. Forse l’immagine apparentemente nuova non è davvero tale. Di ciò si trova traccia nelle motivazioni ufficiali delle decisioni di voto, che hanno espresso, fondatamente o meno, ma sempre in maniera argomentata, preoccupazione per quella è stata descritta come una tendenza da parte delle potenze più influenti a usare pesi e misure differenti a seconda delle circostanze. Si tratta del medesimo slancio ideale, della medesima cultura egualitaria della politica estera sudafricana degli anni Novanta: l’esigenza di trattare chi è alla periferia del sistema con la stessa misura di chi ne è invece al centro.
Se contraddizione o tensione vi è nelle linee di politica estera sudafricana, essa è piuttosto da cercare nella difficoltosa coerenza tra questo slancio ideale e i chiari interessi nazionali associati alla sua condizione di potenza regionale, tra il ruolo di portavoce del continente e di decine di paesi sottorappresentati, da un lato, e dall’altro i rapporti non sempre pacifici con questi stessi paesi. Infatti, mentre le sue capacità economiche, militari e diplomatiche fanno del Sud Africa una potenza nella regione, i rapporti con questa constituency non sono privi di elementi di ambiguità, come fondamentalmente ambivalenti sono gli interessi del Sud Africa: campione dei Paesi in via di sviluppo, ma allo stesso tempo economia dotata di un sistema finanziario addirittura più sviluppato di quello di alcuni membri dell’Ocse e unico paese del continente con una solida struttura industriale, nonché tra i principali investitori in Africa. Anche per questo motivo, può succedere che gli interessi sudafricani siano visti dai partner regionali come più vicini a quelli delle potenze occidentali che a quelli dell’Africa (come è stato per esempio il caso nei primi giorni della Conferenza di Copenhagen dello scorso dicembre sui cambiamenti climatici).
Oltre Zuma
Nel maggio del 2009, con l’insediamento di Jacob Zuma quale quarto presidente (dopo la presidenza di transizione di Kgalema Motlanthe), è giunto a compimento il processo di avvicendamento al potere iniziato con l’African National Congress di Polokwane del dicembre 2007. Si è trattato di un processo assimilabile a un’alternanza di governo e, pur se realizzato tutto all’interno del partito di maggioranza, è stato un processo così significativo da poter essere definito come una seconda transizione.
Alcune cose sono cambiate in Sud Africa nel primo anno del Governo Zuma. Innanzitutto politicamente: la tendenza alla centralizzazione, che ha caratterizzato la presidenza Mbeki, ha lasciato spazio nel governo Zuma a una maggiore dialettica e a una maggiore responsabilizzazione dei vari centri di potere. Ma anche economicamente: traendo profitto dalla stabilità e dalla credibilità economica che il paese si è guadagnato in molti anni di gestione rigorosa dell’economia, il governo ha investito con energia nella lotta alla povertà, sia tramite politiche sociali interventiste sia con politiche economiche marcatamente anticicliche, per contrastare gli effetti sul Sud Africa della crisi economica. Infine, in un sistema politico dominato dall’Anc, è comparsa nei primi mesi della presidenza Zuma una nuova voce. Il grande capitale sudafricano ha deciso infatti, dopo 15 anni di rapporti confidenziali e privilegiati con la presidenza Mbeki, di uscire allo scoperto e di fare apertamente politica, proponendo una sua visione del futuro del paese sul medio-lungo termine con la campagna “Vision 2040”: il Sud Africa può ambire, nel giro di una generazione, a raddoppiare il reddito pro-capite e diventare un membro a pieno titolo dell’Ocse.
È tuttavia improbabile che nel futuro prevedibile vi siano dei cambiamenti fondamentali in politica estera, se si accetta che tra i fattori determinanti della politica estera di un paese vi siano la sua collocazione geopolitica, i valori dell’élite politica dominante e una determinata concezione degli interessi nazionali. Nessuno di questi fattori, infatti, è destinato a cambiare nel breve periodo. Le direttrici di politica estera dell’Anc definite a Polokwane sono eloquenti: «our approach to international relations is based on South African domestic policy as well as our national interests. Hence the dominant features of our foreign policy are: the struggle against poverty and underdevelopment especially in Africa guided by the NEPAD programmes; peace and the peaceful resolution of conflicts; peacekeeping activities; partnerships; building and reforming institutions on the continent and ensuring influence on political global issues».
L’intervento del presidente Zuma all’Assemblea generale dell’Onu il 23 settembre 2009, facendo riferimento agli effetti della crisi economica globale e affermando l’esigenza di fare spazio al centro del sistema per accogliere chi ne è al margine, ha confermato la tensione ideale ed egualitaria del passato: «Developing countries did not cause the economic crisis, but they are severely affected by it. The crisis has further highlighted the urgent need for the fundamental reform of the Bretton Woods institutions, including their mandate, scope, governance and responsiveness. […] We should ensure that the election of the heads of all these institutions is more democratic, and opens opportunities to developing countries. The emerging and developing economies, including the poorest, must have a greater voice and greater participation in these institutions».
Alcuni mesi dopo, all’inizio di febbraio, nel corso della XIV Sessione ordinaria dell’Assemblea dei Capi di Stato e di Governo (Addis Abeba, 31 gennaio-2 febbraio 2010), l’Unione africana ha deciso di sostenere la candidatura del Sud Africa a un seggio non permanente nel Consiglio di Sicurezza per il periodo 2011-2012.