Fra gli attori capaci di influenzare la crisi siriana, anche la Cina trova un proprio ruolo unendosi alla Russia nel porre il veto contro un’azione militare motivata dal presunto impiego di armi chimiche. Nulla di nuovo per un paese che ha sempre fatto del principio di sovranità nazionale (o dell’antimperialismo) un diritto sacro. Nel 2011, però, questa costante è venuta meno durante il Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ha visto l’astensione cinese sull’intervento militare in Libia, paese fra i principali fornitori di greggio per Pechino. La recente opposizione a una guerra lampo in Siria non sembra tradire un ritorno su posizioni più tradizionali: la Cina ha esercitato il potere di veto per ben tre volte dall’ottobre 2011, ma si è anche attivata per promuovere il dialogo (ad esempio, attraverso il piano Syria Action Group’s Communique, che non prevede le dimissioni del presidente Bashar al-Assad). In ogni discussione in cui si è espresso, il Partito Comunista Cinese ha inoltre elevato la norma di non-interferenza reciproca sopra qualsiasi altra forma di legittimazione o principio, Statuto dell’Onu compreso. Recentemente, dopo avere criticato la fretta di intervenire, ha richiesto indagini indipendenti sotto l’egida delle Nazioni Unite mentre l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha parlato di una vera e propria minaccia occidentale nei confronti della popolazione siriana.
La volontà di impedire che si pongano le basi per un intervento armato in Siria riflette l’opposizione all’utilizzo degli organi internazionali da parte degli Stati Uniti in direzioni che possano minare l’ordine politico globale. In questo caso, il Medio Oriente ha nell’Islam il suo anello di congiunzione con gli interessi interni cinesi e, in particolare, con la situazione dello Xinjiang, la regione autonoma nell’ovest della Cina caratterizzata dalla popolazione Uiguri. Questa etnia di origine turca e di religione musulmana è riconosciuta come “minoranza” dal governo di Pechino, ma in quelle terre è maggioritaria rispetto ai gruppi più propriamente cinesi degli Han. Almeno un tempo. Negli ultimi tre decenni, infatti, gli Han sono aumentati grazie ad ampi flussi migratori e a migliori condizioni socio-economiche. Nell’ottobre del 2012, attraverso organi di stampa ricollegabili al governo di Pechino, era trapelata la notizia di formazioni “cinesi” fra i ribelli siriani. Questi “jihadisti cinesi” avrebbero così ricercato all’estero un sostegno che rievocava l’etichetta di terrorismo coniata per le organizzazioni responsabili dei tumulti che avevano scosso lo stesso Xinjiang nel 2009. All’uscita della scottante notizia, l’esecutivo di Damasco aveva affermato i pieni diritti della Cina sulla regione degli Uiguri attirando dalla propria parte un prezioso alleato. Il Partito Comunista Cinese, dal canto suo, da anni svolge un’attenta politica verso le repubbliche musulmane dell’Asia centrale, un sostegno fondamentale per assicurarsi l’opposizione dei rispettivi governi contro gruppi terroristici come l’East Turkestan Islamic Movement.
Il governo di Pechino pare dunque entrare nel ruolo di superpotenza non soltanto economica e finanziaria ma anche nell’ambito degli equilibri internazionali. La difesa degli interessi nazionali nello Xinjiang richiama il tema dell’unità territoriale cinese, un problema fortemente sentito in Cina. Ancora oggi dopo tanti anni dal 1949, il Partito Comunista riscuote parte del suo consenso presentandosi come il difensore di questa integrità o, meglio, come l’unica formazione politica cinese che, dai tempi delle guerre dell’oppio di metà Ottocento, sia stata stabilmente in grado di preservare lo status quo dal colonialismo straniero e dalle forze centrifughe. Una certa coscienza del proprio peso si evidenzia nell’atteggiamento cinese sul caso Snowden, esemplificato in una vignetta del Global Times, quotidiano cinese in lingua inglese legato all’organo comunista Renmin Ribao: Obama cerca di contenere un vulcano mentre getta una bomba in un altro cratere con la scritta “Siria”. La sorte di Bashar al-Assad riunisce così l’antimperialismo con la necessità di evitare riverberi internazionali che coinvolgano la Cina sia sul piano della Primavera Araba sia su quello delle intromissioni di nazioni democratiche in affari di paesi con un diverso regime politico. La Cina, il Tibet e lo Xinjiang non farebbero eccezione.
Questa ricostruzione può spiegare la reazione cinese di fronte alla scelta degli Stati Uniti, rimasti inizialmente spettatori delle rivolte mediorientali, ma non esaurisce l’argomento. La Repubblica Popolare, ad esempio, non sarebbe lieta di vedere i propri partner energetici legarsi agli Usa e, allo stesso modo, non può essere soddisfatta dei risultati delle strategie di pace tentate finora in Medio Oriente. Su questo punto, peraltro, Pechino e Mosca potrebbero arrivare a posizioni antitetiche. Mentre con la pace il petrolio russo subirebbe la competizione di quello mediorientale, la Cina è invece dipendente da questi ultimi paesi e guarda con tutta probabilità a una rapida stabilizzazione. Quindi, pur concordando sul veto russo, la Cina non sembra interessata a mettere in crisi l’idea di un equilibrio multipolare che salvaguardi la lunga marcia del suo sviluppo.
* Lorenzo Capisani, studioso della Cina
Vai al dossier: Siria: verso l'azione militare?