Intervento del Presidente emerito Giorgio Napolitano nell'Aula del Senato (17 marzo 2017).
Fu nell'Aula del Senato italiano - appena rinato a nuova vita nella libertà - che Alcide De Gasperi pronunciò il suo appassionato e combattivo appello per l'approvazione di una mozione federalista. Era il 15 novembre 1950. Come Presidente del Consiglio dei ministri italiano, De Gasperi aveva sei mesi prima dato l'adesione del nostro paese alla Dichiarazione Schuman, vero momento di inizio del processo di integrazione e unità europea. In Senato, egli parlò da leader storico indiscusso della Democrazia Cristiana e da forte leader di governo alla guida dell'Italia già ininterrottamente dal 1945.
Egli fu combattivo e severo dinanzi all'ostilità della sinistra socialista e comunista, già chiusasi nella morsa della guerra fredda e della contrapposizione frontale tra il blocco occidentale e il blocco sovietico. De Gasperi difese energicamente il nascente progetto dell'unità europea da ironie e scetticismi, dicendosi convinto che fosse "possibile giungere a creare un organismo politico, economico, unitario, federativo in Europa ...". E a chi gli contestava di inseguire un mito, rispose "ditemi un po' quale mito dobbiamo proporre alla nostra gioventù per quanto riguarda i rapporti tra Stato e Stato, l'avvenire della nostra Europa, l'avvenire del nostro mondo, la sicurezza, la pace, se non questo sforzo verso l'unione?" E al primo posto nelle sue proposte d'azione figurava la pace.
Già Schuman e Monnet avevano condiviso con gli altri paesi fondatori la priorità dell'ideale della pace e ne avevano fatto un obbiettivo concreto. Perché la forza del progetto europeo stava nel non limitarsi a esprimere valori e ideali, ma a tradurli in obbiettivi puntuali e ad affidarne la realizzazione a Trattati, a istituzioni comuni, a basi giuridiche europee, a disponibilità di risorse da gestire insieme, a tabelle di marcia di un programma condiviso di avanzamento del processo di integrazione.
Nel 1950 l'obbiettivo della pace fu indissolubilmente ancorato al superamento della conflittualità franco-tedesca. Bisognava sradicarne le basi reali, mettendo in comune la produzione di carbone e di acciaio e trasferendo ad una autorità comunitaria l'esercizio della sovranità in quel preciso ambito.
Occorreva in sostanza contestare il dogma della sovranità assoluta degli Stati nazionali perché di lì era partita nel cuore d'Europa la tragedia di due guerre distruttive nel corso del Novecento.
Ho detto della passione europeista e federalista che De Gasperi seppe trasmettere agli italiani, quando non si aveva timore - come è avvenuto già da molti anni a questa parte - di pronunciare la parola "federale", e quando un clima di straordinaria partecipazione politica dopo la Liberazione del nostro paese aveva potuto giovarsi dei canali di grandi partiti politici, democratici e di massa.
Il tragitto complessivo che da allora l'Europa ha compiuto non fu semplice né lineare, tantomeno in Italia. Esso passò attraverso la sconfitta nel 1954 di quel progetto di Comunità Europea di Difesa che conteneva in sé la proposizione di una Comunità politica europea, formulata congiuntamente da Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli. E passò poi, nel 1957, attraverso lo sforzo e il successo della convergenza dei 6 paesi già membri della CECA sulla scelta meno ambiziosa, ma praticabile e feconda di sviluppi costruttivi, di istituire un mercato comune e una Comunità economica europea sulla base dei Trattati di Roma.
Abbiamo portato avanti una costruzione senza precedenti nella storia del nostro Continente. E grave è stato da troppi anni l'errore di non valorizzarne gli straordinari successi, dando così via libera ad ogni mistificazione di correnti non solo euro-scettiche ma euro-distruttive. E' venuto il momento di reagirvi.
E se oggi c'è certamente da cambiare non poco nel modo di essere dell'Unione, bisogna farlo non ignorando quel che si è cambiato progredendo via via. Non si può, ad esempio, ripetere la vecchia lamentazione sul cosiddetto "deficit democratico" dell'Europa unita, dimenticando il ruolo decisivo, prima, della elezione diretta del Parlamento europeo e poi del rafforzamento essenziale dei suoi poteri. Il che è avvenuto anche e in particolare di recente, col Trattato di Lisbona 9 anni fa.
Ora occorre riprendere gli obbiettivi del pieno dispiegamento della dimensione parlamentare dell'Unione, in un organico rapporto tra Parlamento europeo e Parlamenti nazionali. Per questa via, e per quella di una rinnovata partecipazione politica, sociale e culturale, si può consolidare e sviluppare la natura democratica del processo di integrazione e unità dell'Europa, soprattutto nel funzionamento complessivo delle sue istituzioni rappresentative.
Va cambiato il ritmo della capacità di decisione dell'Unione e della sua determinazione nell'approfondire l'integrazione. Ma dove sono le difficoltà e i pericoli che vi si oppongono? Siamo chiari, sono nello sciagurato, allarmante risorgere dei nazionalismi, non solo in Europa, ma certamente in Europa.
Negli anni seguiti alla seconda guerra mondiale, si sottovalutò largamente la possibilità di un recupero di forza e di consenso da parte degli Stati nazionali. Nella previsione del Manifesto di Ventotene sarebbero rimasti "fracassati al suolo", sotto il peso delle aberrazioni e della virulenza distruttiva del nazismo e del fascismo. E invece quel recupero vi fu, gli Stati nazionali risorsero, democratizzandosi, e il cammino dell'integrazione, tra alti e bassi, proseguì.
Ora invece facciamo i conti non solo con le non risolte crisi di fondo che hanno investito l'Europa a partire dal 2008, ma nel periodo più recente con una devastante regressione nei comportamenti di diversi governi e Stati membri dell'Unione. Non occorre che li ricordi.
Si impongono quindi senza ulteriore indugio chiarezza e coraggio sui punti essenziali. Primo: integrazione più stretta e finalmente politica contro il pericolo dei nuovi nazionalismi, che fanno tutt'uno con la demagogia fuorviante e nullista dei movimenti e partiti populisti. Permettetemi di dire "onore al popolo dei Paesi Bassi". Sulla via del'integrazione non lasciamoci paralizzare da quegli Stati membri dell'Unione a 27 che non intendano spingersi più avanti.
Si cominci dunque dalle decisioni che ancora tardano per far fronte, nel breve e nel lungo termine, al fenomeno drammatico delle migrazioni. E si facciano finalmente partire le decisioni puntualmente indicate quasi 2 anni fa dalla Relazione dei Cinque Presidenti per completare l'Unione Economica e Monetaria dell'Europa, anche in senso politico, al fine di potenziarne la dinamica della crescita e la dimensione sociale.
In pari tempo, l'Europa è chiamata a trovare modi nuovi per non disperdere la sua unità almeno sui terreni di più generale consenso. Mi riferisco più che mai all'Europa delle culture, la cui diversità è una ricchezza da valorizzare, come più di chiunque altro ci ha insegnato quel grande europeo che è stato Bronislaw Geremek. Non dimentichiamo il monito del conclusivo discorso di François Mitterrand al Parlamento di Strasburgo nel 1995: "L'Europa delle culture contro l'Europa dei nazionalismi, perché i nazionalismi sono la guerra".
Quindi, contro i nazionalismi e protezionismi che ci minacciano, guardando all'Europa e allargando lo sguardo allo smarrimento e al disordine mondiale, ancora una volta la priorità è la pace, affidata al ruolo dell'Europa unita, che celebriamo per un passaggio storico, di sintesi tra realismo e coraggio, come il 60° anniversario dei Trattati di Roma.
Giorgio Napolitano, Presidente emerito della Repubblica e Presidente onorario ISPI