Il consolidamento di stati nazionali tra il XΙX e XX secolo che, con la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, si trovarono schierati in conflitto, portarono al formarsi di una nuova tipologia di rifugiati, caratterizzata da spostamenti di massa di persone rimaste senza terra, senza stato e senza diritti. La creazione di una serie di organismi volti ad affrontare il massiccio afflusso di sfollati, tra cui l’High Commissioner For Russian Refugees , l’Intergovernamental Commissioner for Refugees, e l’I.R.O . e infine dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, dimostrarono la necessità degli stati di occuparsi in maniera esaustiva delle tematiche connesse all’afflusso di rifugiati.
Contemporaneamente alla creazione di questi organismi internazionali di aiuto e a un lavoro politico della comunità internazionale, si sviluppò anche un dibattito teorico teso a definire il concetto di rifugiato. Vennero dunque elaborate diverse enunciazioni di tale nozione, e tra esse emerse quella c.d. individualistica. L’inclusione di una persona nella definizione di rifugiato non era più basata sull’appartenenza a determinati gruppi etnici, politici o sociali ma diventava una caratteristica intuitu personae, attinente al singolo individuo e ai suoi rapporti con le autorità dello stato di origine. Tale definizione, pur incontrando fortissime opposizioni da parte degli stati socialisti che ritenevano sbagliato conferire tutela internazionale anche ai dissidenti politici, fu supportata dall’Alleanza occidentale e gettò così le basi della moderna disciplina internazionale sulla materia .
Nei paesi occidentali abbiamo sviluppato procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale, basate sulle caratteristiche del singolo individuo, sul suo vissuto nel paese di origine, e sulle prove che lo stesso può offrire per soddisfare i criteri richiesti dalla Convenzione di Ginevra per lo status di rifugiato. Nel Sud del Mondo, al contrario, ci siamo invece mossi richiedendo agli stati di affrontare il problema con un approccio regionale, accogliendo le masse in fuga, senza analizzare le singole richieste di protezione internazionale, ma limitandosi a offrire loro un minimo di assistenza materiale immediata. I paesi del Sud del mondo non sono liberi di sviluppare le proprie procedure e strategie interne per garantire asilo o protezione umanitaria e non lo saranno mai. Essi si trovano ad affrontare e risolvere, il problema fin dall’origine, dovendo gestire la sistemazione di migliaia di persone in fuga da genocidi, guerre civili e altre catastrofi umanitarie, in condizioni fisiche e psicologiche spesso disastrose.
Dopo la fine della Guerra Fredda, vi è stato uno spostamento dalla concezione dei flussi di rifugiati determinati dalla lotta per “un valore ideologico e geopolitico” al prototipo dei cosiddetti “nuovi rifugiati”, in arrivo dall’Africa e dal Sudamerica, in fuga da atrocità che non sempre risultano contemplate dall’articolo 1 della Convenzione di Ginevra. Questo cambiamento di prospettiva ha portato in un primo momento alla definizione del cosiddetto “non entrèe regime” che caratterizza, in parte anche ora, l’approccio dei paesi del Nord del mondo a questo tema.
L’assunto alla base di tale ragionamento – cioè che avere a che fare con i flussi di rifugiati sia più semplice per i paesi appartenenti alla stessa area geografica – è solo uno strumento per spostare l’attenzione dal ruolo attivo che invece i paesi occidentali hanno nel creare tali flussi.
Tuttavia, negli ultimi anni, le politiche volte ad armonizzare quest’ambito della normativa dopo l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam hanno portato all’approvazione di una serie importante di Direttive europee (tra cui la Direttiva 2001/55/CE, relativa alla protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di profughi, la Direttiva 2003/9/CE, riguardante l’accoglienza dei richiedenti asilo, la Direttiva sulla qualificazione dello straniero in cerca di protezione internazionale 2004/83/CE, e ancora la Direttiva sulle Procedure, 2005/83/CE) le quali hanno avuto il pregio di rendere omogenei gli standard minimi del riconoscimento degli status giuridici e dell’accoglienza del richiedente protezione internazionale nei diversi stati europei, migliorando sensibilmente le condizioni dello stesso in paesi, quale ad esempio l’Italia che erano rimasti fermi in questo settore.
Il sistema rimane ancora piuttosto carente e suscettibile di diverse critiche (basti pensare che oltre alle citate Direttive nel 2008 è stata approvata anche la cosiddetta Direttiva Rimpatri nota per le norme sulla detenzione amministrativa dei migranti e degli asilanti) ma le modifiche introdotte dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea , versione nuova e ampliata dell’antico Trattato della Comunità Europea, il quale al titolo V capo II, prevede espressamente la regolamentazione in merito alle Politiche relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione aprono spiragli per il futuro. Infatti, con l’art 67, par.2, del TFUE, l’Unione Europea assume l’obbligo di sviluppare una politica comune (e non più solo standard minimi) in materia di frontiere, visti, immigrazione e asilo. Trattandosi ora di una vera e propria politica comune ciò consentirà all’Unione di adottare qualsiasi atto normativo, a scelta tra Decisioni, Direttive e Regolamenti. In particolare l’adozione di Regolamenti in questo ambito, un’assoluta novità, vincolerà gli Stati in ogni loro elemento senza necessità di una normativa nazionale di attuazione. Allo Stato non si hanno ancora dati recenti sugli effetti delle modifiche introdotte dal TFUE e bisognerà pertanto aspettare ancora qualche tempo per vederne in concreto gli effetti.
Luce Bonzano, avvocato, PhD in Filosofia del Diritto, Università degli Studi di Milano.