Cuba è storicamente per gli Stati Uniti fonte di grande attenzione strategica, economica e diplomatica. In primo luogo per motivi geografici, L’Avana – spesso suo malgrado – non ha mai davvero potuto sottrarsi allo sguardo interessato di Washington. E quando ha provato a farlo, la Casa Bianca non ha assistito passivamente: prima, nel 1903 a seguito dell’indipendenza, le ha imposto un protettorato; poi, all’inizio degli anni Sessanta poco dopo la revolución, le ha applicato un embargo commerciale che continua tutt’oggi. D’altro canto, i legami che si sono instaurati tra Cuba e l’Unione Sovietica dopo la fatidica data del 1961 – anno della fallita (e famigerata) invasione della Baia dei Porci – si sono via via rafforzati durante la Guerra Fredda tanto da divenire, nelle percezioni degli Stati Uniti, sempre più fonte di preoccupazione – se non di pericolo – per la sicurezza nazionale, come evidenziato anche dall’inserimento di Cuba nella lista degli stati sponsor del terrorismo nel 1982, e di riflesso un serio rischio per la propria sfera d’influenza nell’emisfero occidentale nonché una spina nel fianco nella logica Est-Ovest. I rapporti tra L’Avana e Washington, in altre parole, raramente si sono limitati alla dimensione bilaterale; anzi, sovente si sono legati alle dinamiche dello spazio inter-americano intrecciandosi anche a quelle del sistema internazionale nel suo complesso.
Quando la Guerra Fredda finì, il ruolo internazionale di Cuba perse drasticamente importanza in termini sistemici. Lo stesso destino, però, non ebbe l’esperimento comunista condotto sull’isola, che mantenne un certo appeal nel contesto regionale. Un esperimento che, tuttavia, sarebbe ora forse più corretto definire, dismettendo le lenti della logica bipolare, anti-imperialista e, segnatamente, anti-statunitense. Non un caso, infatti, se è a L’Avana che hanno guardato per molti anni con ammirazione e interesse paesi come Venezuela, Nicaragua, Ecuador e Bolivia, che hanno fatto proprio dell’anti-americanismo una forza propulsiva in termini di legittimità interna e proiezione estera. Cuba è stata, dunque, per decenni un simbolo dell’opposizione al Colosso del Nord, alla sua predominanza emisferica e, pur con modalità contraddittorie, ha rappresentato la prova della fattibilità di adottare nella regione un modello politico discordante con gli interessi degli Usa. In più, oggi la continua espansione economica della Cina in America Latina, ad esempio attraverso il finanziamento alla costruzione del Canale di Nicaragua o la stessa crescente interdipendenza sino-cubana, ha contribuito a riposizionare lo sguardo statunitense sulle dinamiche inter-americane. Cuba è risultata ancora, in questo senso, una variabile determinante in grado di ridefinire tali dinamiche, ma, a differenza del passato, non è stata l’imposizione egemonica lo strumento utilizzato dalla Casa Bianca, quanto il dialogo e la concertazione formalmente inter pares.
L’approccio dell’amministrazione Obama nei confronti de L’Avana ha attraversato due fasi. La prima, iniziata nel 2009 e protrattasi fino al 2014, si è innestata ufficialmente su una linea di continuità con le politiche ereditate dalla Guerra Fredda: sanzioni economiche sommate all’assenza di riconoscimenti diplomatici verso un regime responsabile – come più volte riportato da organizzazioni non governative come Amnesty International – di reiterate violazioni dei diritti umani. Un governo, quello cubano, che per interesse e per ideali Washington per cinquant’anni, attraverso l’isolamento, ha inteso indebolire e, magari, sostituire con uno più democratico (e filo-statunitense). E però, sotto traccia e lontano dagli occhi dell’opinione pubblica, i rapporti bilaterali erano iniziati a mutare in senso distensivo fin dall’estate del 2009, quando ripresero i colloqui bilaterali sull’immigrazione e fu ripristinato il servizio postale diretto. La seconda fase è cominciata nel dicembre 2014, nel momento in cui Obama ha annunciato pubblicamente l’avvio dei negoziati ad alto livello. Gli Stati Uniti, disse, avrebbero posto fine a «un approccio anacronistico che, per decenni, ha fallito nel tutelare i nostri interessi»; era invece necessario «iniziare a normalizzare le relazioni» e dare vita a «un nuovo capitolo tra le nazioni delle Americhe» fondato sull’amicizia e sul rispetto reciproco: «todos somos americanos». Tre gli strumenti identificati dal nuovo indirizzo a tal scopo: primo, aumentare nei limiti della legislazione nazionale l’interscambio commerciale con Cuba cominciando col favorire il turismo statunitense sull’isola; secondo, la cancellazione de L’Avana dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo internazionale, avvenuta nel maggio scorso; terzo, la ripresa di normali rapporti diplomatici, fatto ormai imminente.
All’interno degli Stati Uniti, il nuovo approccio di Obama ha dato vita a un infuocato dibattito politico. Vari membri del Congresso, in larga parte i moderati del Partito democratico, si sono schierati al fianco del presidente, sostenendo che la ripresa del dialogo rappresenti in effetti il miglior mezzo per tutelare gli interessi statunitensi e per sostenere il cambiamento a Cuba, dove – fanno notare – l’attuale capo di stato, Raúl Castro, ha già intrapreso la via delle riforme in senso liberale dell’economia. Inoltre perché mai, si domandano dal punto di vista dei principi, gli Stati Uniti dovrebbero dialogare con la Cina e siglare accordi col Vietnam mentre per Cuba resterebbe preferibile l’isolamento? Altri membri del Congresso, invece, per lo più del Partito repubblicano e rappresentanti dell’ala liberal dei Democratici, hanno criticato Obama non solo per ignorare deliberatamente la repressione del dissenso cubano e il mancato rispetto dei diritti umani, ma anche perché il regime di Castro è e resterà ideologicamente anti-statunitense e, quindi, legittimarlo attraverso la ripresa del dialogo o la cancellazione di parte delle sanzioni economiche ne renderebbe inevitabile un suo rafforzamento che, a sua volta, si tradurrebbe nella prosecuzione dell’ostilità verso gli Stati Uniti. In questo dibattito, l’opinione pubblica non si è schierata al fianco né di una parte né dell’altra. Un sondaggio del Washington Post del dicembre scorso ha infatti evidenziato che la maggioranza dei cittadini statunitensi, il 48%, era contraria al nuovo approccio, mentre solo il 44% lo sosteneva. In marzo, invece, un altro rilevamento, pubblicato dal Miami Herald, ha registrato che è il 51% a essere favorevole alla ripresa del dialogo. Anche l’istituto Gallup riscontra la spaccatura: il 48% degli intervistati si è detto ben disposto verso Cuba, mentre il 46% si è dichiarato ostile.
In questo quadro, le relazioni con L’Avana giocheranno verosimilmente un ruolo di primo piano nella corsa alla Casa Bianca del 2016. Alcuni protagonisti hanno già iniziato a muoversi. La probabile leader dei Democratici, Hillary Clinton, ha sostenuto il nuovo indirizzo di Obama sottolineandone la positività anzitutto in un’ottica di «coinvolgimento del popolo cubano e di incremento degli sforzi per sostenere un cambiamento positivo» e democratico del regime di Castro. Molto meno ottimista si è detto il candidato repubblicano di origini cubane, Marco Rubio, che ha invitato l’amministrazione a porre fine al dialogo con un «regime odioso» quanto meno finché questi non dimostrerà coi fatti di aprirsi alla democrazia e al rispetto dei diritti umani. Anche il più moderato Jeb Bush, forse il favorito per la guida del Grand Old Party (Gop), ha preso le distanze da Obama suggerendogli di riflettere sulle conseguenze e prospettando, laddove venisse eletto, la possibilità (ma non la certezza) di fare un passo indietro per evitare di «legittimare un regime che controlla l’economia e reprime il suo popolo». Sul breve periodo, comunque, il presidente troverà sulla strada del riavvicinamento a L’Avana l’ostilità di un Congresso a maggioranza repubblicana. D’altronde, il Campidoglio è il solo ad avere il potere di sanzionare il provvedimento che sta più a cuore al governo cubano: la totale cancellazione dell’embargo commerciale. Lo speaker della Camera dei rappresentanti, John Boehner, è stato chiaro: la svolta di Obama, ha dichiarato, «è una concessione stupida» a Cuba e ai suoi partner nell’emisfero, ed è perciò dovere del Gop continuare a dar battaglia.