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Commentary

La questione del Nilo: una partita ancora aperta

21 febbraio 2013

Sarà la gestione delle acque del Nilo a scatenare il prossimo conflitto in Africa orientale? È presto per dirlo, ma lo sfruttamento delle risorse idriche, se non sarà gestito attraverso accordi internazionali, potrebbe diventare fonte di crescenti tensioni fra i Paesi della regione.

Il Nilo, con i suoi 6.671 km di lunghezza, è il secondo corso d’acqua del pianeta (dopo il Rio delle Amazzoni) e bagna undici Paesi: Burundi, Egitto, Eritrea, Etiopia, Kenya, Congo, Ruanda, Uganda, Sudan, Sudan del Sud, Tanzania. Il suo bacino è in realtà costituito da due affluenti principali: il Nilo Bianco, che ha la sua sorgente nel Lago Vittoria, e il Nilo Azzurro, che nasce nel Lago Tana in Etiopia. Quest’ultimo offre l’85% della portata del fiume, il Nilo Bianco solo il 15%, perché la maggior parte delle sue acque si perde nelle paludi o evapora nelle zone aride attraversate.

La gestione delle acque del Nilo è regolamentata da due trattati. Il primo risale al 1929 e fu stipulato dall’Egitto (che era diventato indipendente nel 1922) e dalla Gran Bretagna (per conto del Sudan, allora sua colonia). L’intesa riconosceva a Egitto e Sudan un diritto storico e naturale all’uso delle acque del fiume, vincolando tutti gli Stati a monte del bacino. Nel 1956, diventato indipendente il Sudan, Khartoum e Il Cairo tornarono a negoziare la ripartizione delle risorse del Nilo. Il trattato firmato nel 1959, e tuttora in vigore, assegna all’Egitto il 75% delle acque del fiume, lasciando al Sudan la rimanente parte. È chiaro che questa intesa garantiva, e garantisce tutt’oggi, una posizione di rilievo all’Egitto che, pur trovandosi a valle, può sfruttare la porzione più grande delle risorse idriche a danno dei Paesi a monte. «L’Egitto – spiega Desirée Quagliarotti, ricercatrice dell’Istituto di studi sulle società del mediterraneo del Consiglio nazionale delle ricerche – ha sempre giustificato la sua posizione egemonica sulla base di motivazioni di carattere geografico e di sviluppo economico, trattandosi di un Paese arido che non potrebbe sopravvivere senza le acque del Nilo, mentre i Paesi a monte ricevono precipitazioni sufficienti da poter sviluppare un’agricoltura pluviale, senza far ricorso all’irrigazione». 

Proprio per evitare futuri conflitti, a partire dagli anni Novanta, sono stati fatti numerosi tentativi di riformulazione del trattato del 1959. La più importante di queste iniziative è nata nel 1999 ed è stata denominata Nile Basin Initiative (Nbi). I Paesi che hanno aderito hanno dichiarato di voler «raggiungere uno sviluppo socio-economico sostenibile attraverso un uso equo delle risorse idriche e dei benefici del comune bacino del Nilo». Dopo anni di trattative, nel 2010 è stato redatto il Cooperative framework agreement (Cfa), un trattato che avrebbe dovuto sostituire quello siglato nel 1959. L’obiettivo è però fallito perché né il Sudan né l’Egitto hanno sottoscritto il documento. Secondo Il Cairo, il Cfa non garantirebbe una portata sufficiente all’Egitto.

«Sebbene i rapporti tra Egitto e Paesi rivieraschi siano rimasti molto tesi fino alla caduta di Hosni Mubarak – continua la Quagliarotti –, negli ultimi mesi la situazione è andata migliorando. L’attuale governo egiziano sembra più interessato ad avere buone relazioni con i Paesi africani. In questa ottica è più disposto a risolvere i problemi del Nilo attraverso la via negoziale. Ciò fa ben sperare». Tuttavia rimangono molti gli elementi che potrebbero accendere la miccia di una guerra, primo fra tutti la crescente pressione demografica. Si calcola, infatti, che, entro un ventennio, la popolazione della regione passerà dagli attuali 400 milioni di persone a circa 700 milioni. Ciò accrescerà lo sfruttamento idrico del bacino che, tra l’altro, è destinato a impoverirsi a causa del surriscaldamento globale.

Già in questi ultimi mesi però si sono creati nuovi motivi di tensione. Il Sudan del Sud, diventato indipendente nel 2011, ha rivendicato una quota dell’acqua che il Trattato del 1959 assegnava al Sudan. Khartoum però è contraria. Con l’indipendenza di Juba, il Sudan ha, infatti, perso il controllo del 50% delle riserve petrolifere e sta avviando una politica di diversificazione produttiva, scommettendo sull’agricoltura, necessitando dunque, di maggiori risorse idriche. A ciò vanno aggiunte le nuove politiche energetiche varate dal governo etiopico. Addis Abeba sta creando grandi dighe per l’irrigazione e per produrre energia da vendere all’estero. Una strategia che rischia, in futuro, di ridurre ulteriormente la portata del Nilo Azzurro. «Solo un intervento internazionale che coinvolga tutti i soggetti interessati – osserva Maurizio Simoncelli di Archivio disarmo – può aiutare questi Paesi a migliorare la gestione delle loro acque, ma anche a trovare un accordo tra gli Stati rivieraschi. L’alternativa è un conflitto armato che peggiorerà solo la situazione». 

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Egitto Sudan Etiopia Nilo Africa Orientale Africa Energia sicurezza sviluppo tensioni Nile Initiative Basin Crisi acqua
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