«C'è una tendenza, condivisa da Hamas e dall'Egitto, a non chiudere le porte a un accordo bilaterale dopo le elezioni presidenziali» egiziane. È realismo politico in piena regola - non c'è che dire - quello che viene trasmesso nelle recenti dichiarazioni al sito d'informazioni al Monitor da parte di un funzionario di Hamas che ha voluto rimanere anonimo(1). Non si chiudono le porte al nuovo regime egiziano che il 26 e 27 maggio necessita di una legittimazione popolare con l'elezione di Abdel Fattah al-Sisi. Non si chiudono le porte, da parte di Hamas, neanche se il regime egiziano si è qualificato, dal 3 luglio 2013 in poi, per il pugno durissimo contro i Fratelli musulmani, la loro alta dirigenza, i militanti, il consenso socioreligioso, la trama economica che ha sostenuto l'Ikhwan.
L'atteggiamento di Hamas è dovuto in gran parte alla pressione esercitata dal Cairo, che nel 2014 ha tenuto chiuso il valico di Rafah - la porta di Gaza verso il Sinai - per ben 91 giorni. Hamas, insomma, subisce le conseguenze della politica interna egiziana e del confronto tra il regime e i Fratelli musulmani. Non solo: il nome del movimento islamista palestinese è all'interno dei capi d'accusa contro la dirigenza dei Fratelli musulmani nei processi a loro carico, compreso nel caso del presidente deposto Mohamed Morsi. Hamas avrebbe aiutato la fuga dalle carceri in cui erano rinchiusi alcuni leader islamisti egiziani nel 2011, e sarebbe autrice di alcuni attentati negli anni successivi: accuse respinte sia dalla Harakat al Muqawwama al Islamiya palestinese, sia dalla Fratellanza egiziana.
Mettendo da parte i dossier aperti sui tavoli dei magistrati egiziani, è evidente che la pressione politica su Hamas, esercitata dal Cairo, ha avuto il suo ruolo nel recente accordo di riconciliazione firmato a Gaza dai rappresentanti dell'OLP, di Fatah, di Hamas. Ancora una volta, insomma, l'Egitto è coinvolto nelle faccende interne palestinesi, nonostante vi siano delle differenze evidenti rispetto al passato. Diversamente dal ruolo avuto durante la presidenza di Hosni Mubarak, attraverso il potente capo dei servizi di sicurezza Omar Suleiman, l'Egitto non agisce attraverso sue figure. È coinvolto, esercita pressioni, controlla, ma non manda suoi uomini a gestire direttamente il tavolo negoziale.
Ci sono, però, le due figure principali del processo di riconciliazione interpalestinese, in piedi ormai da anni, a sancire la continuità. Azzam al Ahmed, per Fatah, e soprattutto Moussa Abu Marzouq, ancora una volta con un ruolo-cardine per la possibile riuscita delle tappe della riconciliazione. Il governo tecnocratico, a fine maggio, e successivamente le elezioni presidenziali, politiche e del parlamento dell'OLP. Moussa Abu Marzouq non è andato via dal Cairo, città dove risiede da quando il bureau politico all'estero di Hamas ha abbandonato Damasco. Abu Marzouq non è stato arrestato, e ha avuto addirittura il permesso da parte delle autorità egiziane di andare a Gaza a trattare la riconciliazione. È lui ancora una volta la figura centrale dei negoziati, come lo fu per il caso di Gilad Shalit e la scarcerazione dei prigionieri palestinesi da parte degli israeliani.
Se Abu Marzouq rappresenta la continuità da parte del movimento islamista palestinese, non è solo perché è stato ed è l'uomo delle trattative ormai da decenni. È perché il suo ruolo è all'interno di una precisa strategia seguita da Hamas fin dal momento della sua costituzione, addirittura prima della sua nascita formale nel 1987. Il nazionalismo palestinese e il pragmatismo del movimento hanno sempre avuto la meglio sulla comune origine islamista, sul comune ceppo da cui Hamas è nato. Cioè la Fratellanza musulmana egiziana. Hamas ha avuto rapporti con il regime di Hosni Mubarak, pur conservando i suoi canali con l'Ikhwan. È stato ospitato dalla Siria degli Assad, nonostante la politica duramente repressiva contro i Fratelli musulmani siriani. Non è, dunque, singolare che il movimento islamista palestinese tratti con Abdel Fattah al-Sisi e il suo Egitto. Anzi, rappresenta una continuità rispetto alla storia di Hamas, e indica anche la sua estrema flessibilità.
D'altro canto, per mantenere una sorta di stabilità (anormale) a Gaza, ed evitare che la crisi tracimi in un Sinai per nulla sotto controllo, il Cairo ha bisogno di un rapporto con Hamas. Ha bisogno, cioè, che Gaza non diventi un buco nero, che non cada in una situazione "somala". La riconciliazione, quindi, fa comodo non solo alla politica palestinese, da anni in crisi di consenso popolare. Fa comodo all'Egitto, e può far comodo anche agli Stati Uniti, usciti sconfitti dal negoziato di pace targato John Kerry. Sempre che, però, la riconciliazione riesca, e non sia per l'ennesima volta la tappa di un processo infinito, di una "industria della riconciliazione" con i suoi quadri, i suoi operai, i suoi comunicatori. Un modo per tener impegnato il tempo del conflitto, senza risolverlo.
1. Adnan Abu Amer, Hamas tones down Brotherhood links to improve Egypt ties, 31 maggio 2014,
http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2014/05/gaza-egypt-hamas-brotherhood-elections.html#ixzz32uKzKT1Q.