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Dai Chicago Boys a oggi
La rivolta in Cile mette a nudo una transizione incompiuta
Armando Sanguini
22 ottobre 2019

Le immagini che ci giungono dal Cile in questi ultimi giorni ci parlano di morti e distruzioni, di violenza brutale e di sopraffazione. Sono immagini inquietanti, dolorosamente inquietanti perché hanno bruscamente riportato alla memoria le ombre di un passato risalente a oltre vent’anni addietro che si pensava/sperava fosse stato ormai archiviato. Ombre che hanno assunto il profilo degli auto-blindo dei militari e delle squadre dei carabineros tornati per le strade del paese in versione repressiva a fronte di una protesta urbana che, scatenata dal mondo studentesco si è allargata progressivamente ad altre fasce della popolazione nelle quali si sono inesorabilmente inseriti anche gruppi di estremisti, sempre pronti a sfruttare momenti di esasperazione. Ombre che hanno rappresentato e stanno rappresentando altrettante spie di una “lettura” e quindi di una “gestione” della piazza troppo incline a privilegiare una logica a dir poco autoritaria e incapace di cogliere le motivazioni di fondo di una piazza resa tanto rabbiosa a fronte di un obiettivamente modesto aumento (da 800 a 830 pesos) del prezzo del trasporto urbano. Motivazioni che il Presidente Sebastián Piñera ha voluto invece ricondurre alla responsabilità di un “nemico poderoso, implacabile che non rispetta nulla e nessuno e che è pronto a far uso della violenza e della delinquenza senza alcun limite”; dunque un nemico contro il quale non c’è che la risposta della “guerra”. Da qui la militarizzazione dello scontro.

Non lo ha fatto riflettere, almeno per il momento, la mancata efficacia del frettoloso annullamento dell’aumento delle tariffe. Lo ha anzi indotto a far ricorso alla legislazione di emergenza di pinochetiana memoria che comporta non solo l’instaurazione di uno stato di eccezione (con buona pace dei diritti personali) ma anche un copri-fuoco dalle 19 alle 6; insomma uno stato di guerra.

Certo non ne ha tratto beneficio la tanto reclamizzata la rappresentazione del Cile nel mondo come la “eccezione latino-americana” in termini di crescita economica, di efficienza produttiva e di democraticità. E giustamente è stato evocato il tema delle disuguaglianze, una vera e propria piaga del paese, tra i primi al mondo a soffrirne, come una delle cause fondamentali del diffuso disagio di cui soffre la popolazione. Si è altrettanto giustamente ricordata la difficoltà di tanta sua parte di fruire di una sanità pubblica degna di questo nome così come di accedere a una istruzione di livello. Questa crisi sta cioè rimettendo nella sua corretta luce l’immagine di un paese che continua a muoversi secondo un modello di società fortemente diseguale dominato dal “privato” rispetto al quale non si vedono segnali di possibili correzioni di rotta da parte dell’attuale governo su cui svetta dal 2018 il Presidente Piñera, che già aveva ricoperto questo incarico dal 2010 al 2014.

Pochi però ricordano come si deve al Cile di Pinochet l’introduzione nel paese del neo-liberismo della scuola di Chicago, considerato dal suo regime come la miglior cura possibile per farlo uscire dalla grave crisi in cui si era venuto a trovare e rilanciarne crescita e sviluppo, ma anche come gli effetti di quella vera e propria rivoluzione socio-economica all’insegna della “flessibilità” si facciano sentire ancora oggi. Dopo tanti anni e malgrado gli sforzi posti in essere dai governi progressisti che si sono succeduti nel tempo, da ultimo da Michelle Bachelet, ora Alto Commissario ONU per i diritti umani, di cui si ricorda principalmente l’impegno sul terreno della parità di genere che in quello delle altre disuguaglianze.

In definitiva, la crisi in cui versa il Cile oggi rispecchia la messa in discussione di un modello di società e di convivenza che ritrova i suoi limiti in un’impostazione socio-economica fortemente neo-liberista e dunque socialmente discriminante che ha trovato un habitat propizio anche in una transizione democratica rimasta tuttora incompiuta.

Anche in questo senso sembra aver ragione Isabel Allende Bussi, figlia del presidente Salvador Allende deposto nel golpe del 1973 di Pinochet, oggi senatrice e Presidente del partito socialista, che nel definire l’attuale momento come cruciale per la stessa democrazia cilena sta chiedendo con forza un “dialogo nazionale” per uscire da questa grave crisi, riconoscendo al contempo, responsabilmente, i limiti dell’azione riformista dei passati governi progressisti.

Resta da chiedersi se Sebastian Piñera, per ora protagonista della reazione armata a una ribellione che certo ha assunto toni e atti da guerriglia urbana, ne vorrà e saprà tener conto.

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America Latina cile
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AUTORI

Armando Sanguini
ISPI Senior Advisor

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