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Commentary
La scommessa di Kobler (e dell'Italia)
Arturo Varvelli
21 Dicembre 2015

La firma dell’accordo per la creazione di nuovo governo di unità nazionale in Libia è certamente una notizia positiva. Tuttavia, dopo un anno di trattative condotte sotto l’egida delle Nazioni Unite, prima con il discusso rappresentante speciale Bernardino Leon e poi con Martin Kobler, questa firma non rappresenta affatto uno scontato passaggio verso l’uscita dalla crisi. I motivi di dubbio ed incertezza permangono e potranno essere parzialmente superati solo nelle prossime settimane.

Ciò che si deve evidenziare è un chiaro cambio di strategia nella conduzione delle trattative e questo si deve innanzitutto al diplomatico tedesco. Anziché procedere con l’approvazione del piano da parte dei due parlamenti – quello di Tobruk e quello di Tripoli che da ormai da 16 mesi si contendono la legittimità – Kobler e le Nazioni Unite hanno imposto quello che vorrebbe essere un processo “bottom up”, ossia la raccolta di un centinaio (o comunque della maggioranza) di firme dei parlamentari dei due congressi, insieme a quelle di rappresentanti locali, elders tribali e membri della società civile. In teoria è una mossa opportuna che rovescia il potere di ricatto che milizie e leadership politiche prive di legittimità stavano imponendo al paese grazie alla necessità di ottenere un voto favorevole nei due parlamenti. Kobler ha lavorato in Iraq e sa quanto sia difficile ricreare un contesto di legittimità in situazioni post-conflict.

Questo passo nel processo di stabilizzazione è stato permesso da alcune condizioni internazionali favorevoli: una rinnovata enfasi sulla crisi libica, legata all’emergere dei gruppi legati al sedicente Stato Islamico e al suo proliferare in condizioni di anarchia insieme a una percezione di minaccia accresciuta del terrorismo islamico dopo i fatti di Parigi. Ciò ha comportato l’apertura di una nuova finestra temporale per le Nazioni Unite e per l’Italia, l’attore che maggiormente crede in una via negoziale alla risoluzione della crisi libica e che ha i maggiori interessi. L’endorsement americano – con la presenza di Kerry a Roma – ha favorito questa azione diplomatica fornendo il tempo (quanto?) utile alla costituzione di un governo prima che altre potenze - Gran Bretagna e Francia l’hanno già apertamente dichiarato - intraprendano un’azione militare per il contenimento di IS in Libia. Bombardamenti sul suolo libico compatterebbero, probabilmente attorno a IS, le milizie radicali che finora sono sembrate anch’esse piuttosto frammentate.

Nonostante ciò questa azione politica e diplomatica appare comunque una scommessa: la mancata cooptazione nella stesura dell’accordo di una serie di attori locali e di milizie che sono i realtà le reali detentrici del potere in Libia mette in dubbio la credibilità dell’accordo e la sua sostenibilità. La scommessa si basa principalmente sul fatto che l’appeal di un nuovo governo unitario riconosciuto e sorretto a livello internazionale possa stroncare eventuali gruppi oppositori, rendendo maggiormente conveniente essere parte del nuovo processo politico anziché rimanerne esclusi. In questo contesto sarà necessario trovare il prima possibile un accordo sulla sicurezza, perlomeno nella capitale, procedendo parallelamente all’accordo politico sui nomi del futuro governo. È certamente molto rischioso poiché il nuovo governo potrebbe instaurarsi a Tripoli senza alcuna garanzia della propria incolumità fisica, riproponendo spiacevoli incidenti vissuti nel recente passato, intimidazioni, minacce e rapimenti di rappresentanti politici, privando nuovamente di efficacia il governo libico. Scartata ogni ipotesi di “boots on the ground”, neppure nella forma di una missione internazionale con l’obiettivo di salvaguardare all’interno di un’area protetta le istituzioni politiche ed economiche del paese, non resta che vedere quale grado di consenso otterrà l’accordo. A occuparsi di questa questione lavorando a una mediazione tra le varie milizie sarà il generale italiano Paolo Serra, neo incaricato per la sicurezza Onu. Una figura che sarà centrale quasi quanto quella di Kobler.

Di particolare rilievo saranno le posizioni che terranno attori che hanno sinora sempre fatto la fronda ad ogni accordo: da una parte il generale Haftar che dovrebbe essere sostituito ai vertici dell’esercito libico per poter sperare in una convivenza con le milizie di Misurata, uno dei poli militari più robusti che il processo di negoziazione ha cooptato nella nuova sistemazione politica; dall’altra le forze “islamiste” della Tripolitania, un mix variegato di attori politici (il presidente del parlamento Abu Sahmain), religiosi (il gran Muftì al Ghariani) e miliziani radicali (Salah Badi) le cui fondamenta non sembrano stabili ma che neppure è pensabile che improvvisamente gettino la spugna rinunciato a influenza politica e militare.

Su quale potere coercitivo potrà contare il nuovo governo? Come si potrà far rispettare il cessate il fuoco previsto dall’accordo? Tutti gli attori regionali lavoreranno a favore dell’accordo? Esiste un piano chiaro per ricominciare a creare uno stato libico unitario e creare nuove istituzioni funzionali e far ripartire il settore energetico? Queste sono solo alcune delle perplessità che contornano questo accordo che potrebbe riportare ad un percorso di riconciliazione il paese o potrebbe caratterizzarlo per uno scenario ancora più inquietante: un terzo governo costretto all’esilio nel caso i due esistenti , come possibile, non avessero alcuna intenzione di sciogliersi. Kobler ha gettato il cuore oltre l’ostacolo ma purtroppo non è detto che sia sufficiente. 

Arturo Varvelli, ISPI Research Fellow and Head of Terrorism Program

 

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Governo Libia Governo di unità nazionale accordo Libia Kobler
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Autori

Arturo Varvelli
Senior Research Fellow

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